lunedì 31 agosto 2015

/Debito/ uguale /colpa/. Quella parola unica che separa i tedeschi dal mondo greco.

Joseph Schumpeter
di Silvia Ronchey

(Articolo già apparso su http://www.silviaronchey.it/articolo/6/408/Debito-uguale-colpa-Quella-parola-unica-che-separa-i-tedeschi-dal-mondo-greco/)

Che cos'è il debito? In tedesco il sostantivo femminile Schuld designa insieme il debito e la colpa. «Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce colpa e debito», scriveva già nel 1921 Walter Benjamin. La vittoria del no al referendum greco ha richiamato l'attenzione del mondo non solo sulla drammaticità della situazione politica ma anche sul conflitto culturale, sull'antinomia profonda connessa alla concezione del debito nell'evolversi della psiche collettiva: ancora una volta, sull'antica polarità tra Grecia e Germania.
Debito e colpa è il titolo di un libro appena uscito (Ediesse, pagg. 240, euro 12) che Elettra Stimilli ha dedicato alla centralità della figura del debito come colpa nell'indebitamento planetario che segna la più recente fase del capitalismo contemporaneo. Le forme di consumo illimitato basate sull'indebitamento privato, partite dall'America, sono diventate, argomenta Stimilli, il motore principale dell'economia. Dal 2009, con l'immediato globalizzarsi della crisi americana, l'aumento esponenziale del debito privato ha coinvolto il debito pubblico dei paesi economicamente avanzati fino ad arrivare ai debiti sovrani. La finanziarizzazione della vita quotidiana, la "democratizzazione del credito", ha prodotto uno stato di indebitamento generalizzato in cui ognuno, sia come lavoratore sia come consumatore, è diventato per definizione anzitutto debitore.
Nella cultura attuale dell'occidente, la parola debito è eminentemente connessa a quell'etica protestante, che già Max Weber vedeva all'origine ideale e psicologica, prima ancora che materiale e sociale, del sistema capitalista, alla cui indubbia efficienza i teorici, da Karl Marx a Joseph Schumpeter, hanno sempre contrapposto, con diversi gradi di perplessità, la difficoltà etica della giustificazione teorica. Se per Max Weber il capitale nella sua forma moderna nasceva dalla concezione calvinista della grazia e del peccato per poi secolarizzarsi in ideologia profana, secondo Benjamin il capitalismo può considerarsi in sé una religione, il culto di un dio minore, privo di dogmi ma dalla legge implacabile. È proprio la connessione religiosa fra debito economico e colpa morale — attinta peraltro a un'intuizione degli scritti giovanili di Marx — che porta il povero insolvente, scriveva Benjamin, «a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire, così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco».
Se in tedesco i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale, la lingua greca, che sta all'origine del nostro pensiero e della nostra sintassi filosofica, distingue nettamente tra l'uno e l'altra. Nel greco antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos , un sostantivo che deriva dal verbo chraomai , "usare", e dalla locuzione chre , "ciò che serve", che si usa e di cui c'è bisogno; è inoltre connesso con chreia , la "mancanza". Il termine chreos viene usato ampiamente dagli storici, come Tucidide, dai filosofi, come Platone, e dai giuristi, fino alle Novelle di Giustiniano e ai Basilika : il greco bizantino assicurerà la continuità e trasmetterà la certezza del diritto romano nel suo transito millenario dall'età antica a quella moderna, attraverso i secoli solo in occidente oscuri del cosiddetto medioevo dominato dal diritto barbarico.
Ma la prima attestazione della parolachreos nella letteratura greca è già nell'ottavo canto dell' Odissea , nel passo in cui Efesto incatena Ares e Afrodite dopo averli colti in adulterio. Tutti gli dèi ridono tranne Poseidone, che gli intima di scioglierli. Efesto rifiuta perché, dice, se lo facesse Ares fuggirebbe eludendo insieme due vincoli, quello materiale della catena e quello morale, il chreos , che lo lega ormai a Efesto. Questo secondo legame non è una servitù, impossibile tra dèi, piuttosto una comunanza di destino, un pegno. Il dio della guerra si è indebitato con il dio del fuoco, dell'ingegneria, dei fabbri, di tutti gli artigiani: cedendo all'amore, condividendo il fascino della dea, si è sottomesso al vincolo di un reciproco scambio. Anche altrove il significato del chreos greco sfuma spesso in quello di una comunanza ferrea di destino, di una ineludibile necessità: designa
San Luca Evangelista, dipinto del Guercino
"il debito che tutti devono pagare", ossia, almeno a partire da Teognide, anzitutto e per definizione la morte. Un'accezione metaforica di chreos che si ritrova lungo tutta la letteratura greca, da Platone alla Sapienza di Salomone tradotta nella bibbia dei Settanta. La distinzione tra debito e colpa è evidente nel Nuovo Testamento, anzitutto in uno dei suoi passaggi più noti: la preghiera del discorso della montagna, che diventerà il padre nostro. Qui il greco della koiné usa, anziché chreos, il più materiale e umile sostantivo ophèilema, che si ritrova in Matteo 6, 12: "rimetti a noi i nostri debiti". La clamorosa discrepanza dal testo di Luca 11, 4, che ha invece la variante "rimetti a noi i nostri peccati" e usa il ben distinto sostantivo amartìa , ha dato luogo a infinite dispute teologiche e fatto sospettare una comune ascendenza dall'ebraico hôb, hôbot, insieme debito e colpa. Ma proprio il fatto che il dettato neotestamentario debba adottare due voci diverse sottolinea l'estraneità dei due concetti nella psiche greca.
Lo squilibrio politico generato da un lungo e inestinguibile debito ha un precedente storico nel mondo greco. A provocare la caduta dell'impero di Bisanzio sei secoli fa è stato il debito con la repubblica di Venezia, incarnazione di quel capitalismo nascente che la percezione teologica e filosofica bizantina, erede di quella classica, non sarebbe mai riuscita ad assimilare né a comprendere.
L'indebitamento dello stato bizantino con i banchieri dell'occidente spinse le sue élite verso l'oriente. La civiltà bizantina entrò allora nella sfera geopolitica dell'islam ottomano, da cui solo nel XIX secolo la Grecia è emersa.

lunedì 3 agosto 2015

Deleuze. A vent'anni dalla morte, I.

Era la biblioteca di Babele...
di Jean-François Lyotard

Deleuze in uno scatto di Gerard Uferas
La sua morte mi ha sorpreso nell'atto di prendere qualche idea dal suo Cinema 2, L'iimagine-tempo. Tutti i suoi libri erano fatti affinché vi si reperisse ciò di cui si aveva bisogno. Soprattutto ciò di cui non si ha bisogno perché non se ne ha idea. Vi si trovava, vi si troverà sempre ciò che serve. Lui stesso diceva che leggeva per rubare. Grande solitario, nel suo antro di studente modesto, un sofa sotto una lampada per leggere, una tavola qualsiasi per scrivere, un po' mondano a volte come sono i misantropi per ridere, egli era in relazione permanente con il suo tempo, con tutti i tempi grazie alla lettura. Leggeva per sviare, per fare con la sua scrittura ciò che si fa con la propria cucina. Non un giorno senza scrivere. Si è come cavalli, diceva, abbiamo bisogno della nostra avena da masticare tutte le mattine. Privo di pregiudizi, ricavava un pensiero nuovo da tutte le opere più contraddittorie, Sartre e Spinoza, Leibniz e Bergson, Sacher-Masoch, Marx e Beckett. Commentare era inventare. Era la biblioteca di Babele, ma senza premura di aggiornare lo schedario, al contrario anzi, al fine di aggiungere, di farlo debordare. Privo di pregiudizi, ma con degli odi, l'odio dello stesso, l'odio per ogni pensiero legato a qualche trascendenza. Freud prima di tutto. Ed egli mise in opera con Guattari un Kafka comico, un'anima tutta in corpo, una legge ignorata, un padre iniziato da giovani fanciulle. Ogni saggezza era immanenza. Nulla di odioso, come i maestri, i porta-voce. Il teorico del pensare sempre come un montaggio di idee, improbabile, provvisorio, prodotto dall'incontro di linee di fuga eterogenee, e utile. Era la sua alleanza segreta col pensiero inglese, la sua allergia ai pensatori della storia. Non c'è una fine di questo o di quello. Egli fece di Nietzsche l'inventore di una temporalità non diacronica, come Proust con i suoi segni e gli stoici con gli incorporei. Inizio e fine sono irrilevanti in confronto all'aiôn. L'utilità si misura sulla base dell'incremento delle possibilità di inventare. Egli non credeva che a questo, alla creazione. Egli analizzava i dispositivi nelle scienze, nelle arti e nella letteratura, nelle filosofie. Le sue analisi stesse erano delle creazioni. Aveva l'ingegnosità ridente e generosa del genio. Ho sempre pensato che egli fosse uno dei due geni della nostra generazione filosofica. Non ha fatto mai nulla per far riconoscere la sua grandezza, dal momento che non credeva che al piccolo. L'istituzione lo atterriva, i progetti collettivi, gli apparati. Egli sapeva che tutto questo funziona solo se sabotato [détraqué]. Tale sapere lo mise un tempo in familiarità con Foucault. Poco a poco gli studenti, i ricercatori, scoprono la fecondità, la foga, di questo pensiero vigoroso. Il suo fascino gli procurava amici che egli «leggeva», svaligiava, che egli conservava per una qualità sconosciuta a loro stessi o rigettava cortesemente dopo un certo tempo, come i libri senza utilità finiscono nell'atrio. Era troppo duro per provare delusione o risentimento, affetti negativi. In questa fine secolo nichilista, egli era affermazione. Fin nella malattia e la morte. Perché ho parlato di lui al passato? Rideva, ride, è là. È il tuo dolore, sciocco – dice lui.

Il était la bibliothèque de Babel
Sa mort m'a surpris en train de puiser des idées dans son Cinéma 2, Image-temps. Tous ses livres ont été faits pour qu'on y ramasse ce dont on a besoin. Surtout ce dont on n'a pas besoin, parce qu'on n'en avait pas idée. On trouvait, on trouvera toujours ce qu'il faut. Il disait lui-même qu'il lisait pour voler. Grand solitaire, dans son antre d'étudiant modeste, un fauteuil sous une lampe pour lire, une table quelconque pour écrire, un peu mondain parfois comme sont les misanthropes pour rire, il était en relation permanente avec son temps, avec tous les temps, par la lecture. Il lisait pour détourner, pour faire son écriture comme on fait sa cuisine. Pas de jour qu'il n'écrivît. On est comme des chevaux, disait-il, il nous faut notre avoine à mastiquer tous les matins. Pas de préjugé, il faisait pensée nouvelle de toute oeuvre, des plus contraires, Sartre et Spinoza, Leibniz et Bergson, Sacher-Masoch, Marx et Beckett. Commenter était inventer. Il était la bibliothèque de Babel, mais sans souci d'en tenir à jour le fichier, au contraire, y ajouter, le faire déborder. Pas de préjugé mais des haines, la haine du même, la haine pour toute pensée attachée à quelque transcendance. Freud avant tout. Et il arrangea avec Guattari un Kafka comique, une âme tout en corps, une loi ignorée, un père débouté par des jeunes filles. Toute sagesse était d'immanence. Rien d'odieux comme les maîtres, les porte-parole. Le théorique à penser toujours comme un montage d'idées, improbable, provisoire, produit par la rencontre de lignes de fuite hétérogènes, et utile. C'était son alliance secrète avec la pensée anglaise, son allergie aux penseurs de l'histoire. Pas de fin de ceci ou de cela. Il fit de Nietzsche l'inventeur d'une temporalité non diachronique, comme Proust avec ses signes et les stoïciens avec les incorporels. Début et fin sont futiles eu égard à l'aiôn. L'utilité se mesure à l'augmentation des puissances d'inventer. Il ne croyait qu'à cela, la création. Il en analysait les dispositifs dans les sciences, dans l'art et la littérature, dans les philosophies. Ses analyses elles-mêmes étaient des créations. Il avait l'ingéniosité rieuse et généreuse du génie. J'ai toujours pensé qu'il était l'un des deux génies de notre génération philosophique. Il n'a jamais rien fait pour faire reconnaître sa grandeur, ne croyant qu'au petit. L'institution l'effarouchait, les projets collectifs, les appareils. Il savait qu'ils ne marchent que détraqués. Ce savoir le mit un temps d'accointance avec Foucault. Peu à peu, les étudiants, les chercheurs, découvrent la fécondité, la fougue, de cette pensée fugueuse. Son charme lui procurait des amis, qu'il «lisait» et dévalisait, qu'il conservait pour une qualité inconnue d'eux-mêmes, ou rejetait courtoisement après un temps, comme les livres sans emploi filaient dans l'âtre. Il était trop dur pour éprouver déceptions et ressentiments, affections négatives. Dans cette fin de siècle nihiliste, il était l'affirmation. Jusque dans la maladie et la mort. Pourquoi ai-je parlé de lui au passé? il rirait, il rit, il est là. C'est ton chagrin idiot, dit-il.
(J-F Lyotard, Libération, 07/11/1995)

Traduzione di Crivella Giuseppe

mercoledì 29 luglio 2015

Ottica, numeri e precisione: elogio della tecnica...

di Jean Clair

Jan van Eyck, Il Cancelliere Rolin
La mia prima emozione che potessi qualificare come artistica la provai in un museo scientifico: al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, davanti ai piccoli strumenti di vetro e di rame che Lavoisier utilizzava nel suo laboratorio. Si trattava di arte? Il nome del Museo lo assicurava: Conservatorio delle Arti e dei Mestieri. Ora non si chiama più così, ma è intitolato "Museo delle tecniche". Solo più tardi ho ritrovato lo stesso piacere in un museo detto "delle Belle Arti", mi pare fosse davanti alla Vergine del Cancelliere Rolin, al Louvre, la cui precisione ottica mi incantava.
E solo più tardi ancora compresi che gli oggetti della scienza erano a volte delle opere d'arte, e che le opere d'arte erano spesso oggetti scientifici. L'estetica a volte poteva essere un'euristica.
La più bella dimostrazione di questa equazione l'ha fatta Claude Lévi-Strauss, a proposito di un ritratto di dama di Cluet di cui ammirava la "collerette". L'emozione profonda, ci dice, che suscita la riproduzione del collo di merletto, filo per filo, con un effetto di trompe- l'oeil scrupoloso, è la stessa che produce il modellino a scala ridotta, il capolavoro dell'artigiano, che è il prototipo dell'opera d'arte.
Entrambi, per effetto della riduzione, procedono per una sorta di inversione del processo della conoscenza: per conoscere un oggetto, abbiamo tendenza a operare a partire delle sue componenti. La riduzione della scala capovolge la situazione; più piccola, la totalità dell'oggetto appare meno temibile. La virtù intrinseca del modello è di compensare la rinuncia alle dimensioni sensibili attraverso l'acquisizione di dimensioni intelleggibili. La scienza che lavora a scala reale, che rimpiazza un essere con un altro, l'effetto con la causa, è dell'ordine della metonimia, mentre l'arte che lavora a scala ridotta producendo un'immagine omologa all'oggetto rientra nel campo della metafora.
Ars , in latino, ci parla di abilità: è un talento particolare acquisito attraverso lo studio e la pratica (diciamo: "possedere l'arte di..."); una conoscenza legata a un mestiere, un'esperienza del corpo che permette la precisione e l'economia dei gesti, un'attitudine appresa che si schiude all'eleganza, allo charme, alla grazia (diciamo: "fare con arte"). Ars è nel contempo la "maniera" dell'artista e il marchio dell'artigiano. Nel linguaggio popolare, l'"homme de l'art", l'uomo dell'arte, è l'uomo del mestiere. Questa qualità può limitarsi a una parte del corpo, una particolare abilità manuale, un gesto, un'attitudine, per esempio il portamento del ballerino, o la voce posata del cantante o dell'oratore - l' actio nella retorica... Si parlerà anche della "mano intelligente" dell'architetto, quella sua arte particolare che unisce competenze manuali e intelligenza concettuale.
Una dama di Jean Clouet
Da questo punto di vista, l'arte, ars , si oppone alla natura, come l'artificio si oppone al naturale. Ma si
oppone anche all' ingenium, che non è il genio, bensì l'inclinazione spontanea, la disposizione propria della sensibilità. L' ars è acquisita, l' ingenium è innato. L' ingenium è la capacità naturale dello spirito a produrre, una potenza generativa che è allo stesso tempo predisposizione nativa e invenzione. Vicino a quella che Lévi-Strauss descriveva con il termine di "bricolage", l' ingenium è quell'attitudine dello spirito umano a riunire dati eterogenei per produrre qualcosa di nuovo. Oltrepassa i limiti della semplice ragione, è appunto quell'eccesso che somiglia a un dono, al'invenzione ingenua, al tratto di genio.
Ars si oppone infine alla scientia , che è un sapere essenzialmente linguistico e verbale, un'informazione, una conoscenza, o l'insieme delle conoscenze acquisite su un soggetto. Cicerone oppone i due termini di ars e scientia quando parla di " artem scientia tenere ", possedere un'arte in teoria. Scientia , la conoscenza astratta e generale, non è il sapere concreto e singolare che si incarna in un gesto, in un "tour de main", quel linguaggio del corpo che Aristotele chiamava giustamente tekhné : «I Greci, ricorda Ernst Gombrich, avevano un solo termine e un solo concetto per l'arte e per l'abilità: tekhné» - la storia dell'arte, per definizione, era la storia delle tecniche. Se consideriamo le lingue germaniche, ritroviamo più o meno le stesse opposizioni. Kunst , l'arte, deriva dall'alto tedesco können , che ci parla di una disposizione intermedia tra la conoscenza e la competenza, tra il sapere e l'abilità. In ogni caso nulla di comparabile alla pretenzione che oggi dissimuliamo sotto il termine di "arte". Können ha la stessa origine del gotico kann , dell'antico inglese can , nel senso di un potere radicato in un sapere.
Notiamo en passant che können non va confuso, nonostante l'omofonia, con kennen , che si- gnifica conoscere, essere al corrente, come to know in inglese: è questo il campo della conoscenza, del knowledge , della scientia. Già all'origine quindi troviamo nel termine "arte" un'ambivalenza, un'oscillazione tra un savoir faire che rileva di un apprendimento e di una conoscenza, dell'ordine del codificabile e del trasmissibile, e d'altra parte una qualità eccezionale, una tendenza particolare di un individuo, uno slancio dell'essere, una disposizione singolare dei suoi organi, delle sue cellule, che gli permetterebbe di esercitare un potere di cui gli altri non dispongono, nonostante abbiano le stesse conoscenze. Ma i due aspetti sono legati: non ci può essere pouvoir-faire senza savoir-faire , né savoir- faire senza vouloir-faire.
Henri Focillon
Malkunst, nel sedicesimo secolo, è l'arte di dipingere, e cioè quell'insieme complesso di ricette e di conoscenze che permettono all'artigiano di esercitare il suo mestiere. Ma oltre alla chimica che gli permette di preparare i colori, quest'arte complessa riunisce ben altre competenze: la matematica e la fisica che permettono di fondarsi sulla prospettiva come scienza esatta, e di disporre correttamente i corpi nello spazio; l'anatomia, insegnata nei teatri di Padova, di Bologna, di Londra, di Vienna; la fisiologia, ossia lo studio del funzionamento dei tessuti, delle carnagioni, degli organi; l'ottica, la dioptrica e la catoptrica, che permettono di progredire nella scienza dei colori, delle rifrazioni, dei riflessi, delle trasparenze; e anche un po' di zoologia che permette di distinguere e di tagliare correttamente i calami per disegnare e i peli animali di cui son fatti i pennelli, di martora per esempio... tutto un insieme di conoscenze e di ricette che hanno permesso all'arte della pittura di passare dallo statuto di ars mecanica a quello delle artes liberales , e all'artista, di non essere semplicemente un abile artigiano ma un letterato, un sapiente, un polymathes, un polytechnes.

(di Jean Clair, già pubblicato su Repubblica 11/07/2015. Cfr http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/07/11/ottica-numeri-e-precisione-lemozione-nasce-dalla-tecnica46.html?ref=search)

domenica 31 maggio 2015

Così incominciò la notte dell'uomo che nessuna storia può raccontare...

di Guido Ceronetti

Già pubblicato su http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/06/27/cosi-incomincio-la-notte-delluomo-che-nessuna-storia-puo-raccontare6638.html

Guido Ceronetti e Danton
Meditabile, circa l'inizio della Grande Guerra, un pensiero di Johan Huizinga in Lo scempio del mondo , che di quella che tuttora, tanto per definire, è detta Belle Époque, frantuma l'essenza: «... la povera Europa si avviava verso la prima guerra mondiale come un'automobile sgangherata in mano di un conducente ubriaco per una strada tutta buche e cunette ». Il conducente ubriaco erano i potenti di allora, i grandi coronati, e dietro di loro i predicanti intellettuali più influenti, Kaiser, Zar, D'Annunzio, Maurras, Marinetti... Ad un certo punto di quella strada tutta buche si trova un giovane bosniaco imbevuto di idee estremiste, Gavrilo Princip, che con due pistolettate contro l'arciduca erede della corona asburgica e la moglie, in visita di Stato a Sarajevo, mette a nudo senza affatto pensarci una inimmaginata degenerazione spirituale della civiltà e della figura umana.
Era cento anni fa, il 28 di giugno, e il Tempo, da allora, si è messo a correre correre, secoli sembrano passati — ma quella guerra è davvero finita? Per la storiografia materialista finisce l'8 maggio 1945; un filosofo fa bene a dubitarne. Anzi a negarlo. Come non è cominciata il 28 giugno 1914, la parola Fine non ce la metterei. L'automobile sgangherata non ha terminato la sua corsa, e al conducente ubriaco è subentrato uno senza volto, la corsa prosegue per tutte le strade del mondo.
Il disfacimento dell'impero danubiano non fu soltanto una decisione punitiva di Versailles perfettamente priva di saggezza: una brama di dissolvimento agiva nella Vienna drogata meravigliosamente dalla musica e dalla bellezza della Secession. Commuove percorrerne gli alfabeti, le supreme visioni erotiche: il grembo del baratro era là, e subito fin dalla dichiarazione di guerra alla Serbia, ingoiò tutto. L'Italia, un anno dopo, credette di far la guerra a un esercito agguerritissimo; in realtà quel che spietatamente lo reggeva non era più che un fantasma.
Già nel 1916, quando noi ci affannavamo per prendere Gorizia, ne fu consapevole l'imperatore Carlo; ma tutto, ormai, era perduto.
Johan Huizinga
Non si indagano che fatti, fatti... Le analisi psicologiche trattano perlopiù del morale delle truppe, dei comportamenti al fronte, del ritorno a casa. La carneficina non riguarda soltanto i corpi materiali dei caduti. L'Europa perdette una quantità incalcolabile di sostanza virile. Uno psicanalista potrebbe vedere nella trincea una vagina con denti di tigre, che attira virilità per maciullarla. Il consumo spermatico nei sospirati bordelli militari è incalcolabilmente sorpassato dalla attenzione spossatrice del Nemico di fronte, di là dalla selva oscura di una Terra di Nessuno infestata da spiriti maligni, col dito sulle mitragliatrici. Quel che ne restava, poco più di venti anni dopo, viene liquidato in cinque anni. La successiva lunga pace, in cui Marte si nasconde dietro la maschera neutra dell'Economia, si caratterizza per la snervatezza dell' homo pacificus e l'avanzata, su tutto il fronte dell'esistenza, del potere matriarcale. Un verso di Apollinaire, combattente in una batteria di artiglieri, è di una pregnanza infinita della realtà in ombra della guerra in cui il segno maschile è andato in pezzi, quinto (segreto) dei quattro grandi Imperi dissolti: Notte di uomini soltanto . È una notte di vigilia di un assalto e grida come una donna sopraparto, assorbendo nel lamento dei materiali da sparo anche la pena estrema della femminilità esclusa. Verso stupefacente, la verità profonda della guerra di Quattordici, che non è finita ieri né finirà domani.
Già. Il quinto Impero, che ha continuato a dissolversi negli anni. La notte degli uomini non avrà più fine, come quella guerra. Il più grande romanzo di un testimone, in lingua tedesca, All'Ovest niente di nuovo , capolavoro assoluto e inuguagliato, erutta di tutta la smisurata sofferenza di quelle nuit des hommes . In Remarque non c'è che questo, la sofferenza di sette liceali partiti volontari, di cui non sopravvivrà neppure l'Io narrante, caduto poco prima dell'armistizio. In Addio alle armi, di Hemingway, in un insopportabile lezzo di alcolici trincati dall'autore, le donne compaiono, amanti di retrovia, sussulti di giovinezza; ma è più che mai "notte di uomini soltanto" anche negli sfoghi erotici dei permessi. Un poilu di Barbusse in licenza a Parigi, vedendo tante donne sole in giro, osserva soddisfatto: «Bene, ci sono chiappe»: visto e sentito così l'essere umano da desiderare diventa equipaggiamento militare, materiale- chiappe, munizioni di carne.
Il miracolo della resistenza francese alle tremende offensive tedesche (Marna, Verdun), comandi discutibili, è un mistero spirituale, come Léon Bloy si esaltava a vederlo. Perché le classi lavoratrici in uniforme erano ancora quelle dell' Assommoir, infradiciate d'alcool, più stregate dal vino (detto "il latte dell'operaio") che da chiappe di bellezza. Nella canzone più popolare del fronte occidentale, la Madelon, il suo lavoro di donna emblematica dei combattenti, è esclusivamente di "versare da bere". La salvezza da dove sarà mai venuta? Dai decreti del Fato, più forti di ogni Madonna? Dai litri e litri di "quello buono" di certo no. Eppure i formidabili corpi d'armata del Kaiser arretrarono.
Henri Barbusse
Nel 1917, anno di tutti i presagi e le profezie, quarto da Sarajevo, i combattenti sono sfiniti, cedono, perdono disciplina, si ribellano; il vino, il ruhm, il cioccolato sono impotenti a rianimare delle povere brache piene, di dissenterici cronici per cibo via via più scarso e di scarto. Serpeggia la sensazione, specie nel campo inglese, che la guerra si trascinerà all'infinito, che i vecchi e i nuovi combattenti s'incontreranno tra vent'anni sulle medesime posizioni per obbedire da automi agli stessi ordini di un attacco over the top, in una desolazione lunare, mentre dall'est la propaganda bolscevica sussurrava per via subliminale e oratoria: «Mollate il fucile, mollate tutto, sparate sugli ufficiali, revolùtzia, revolùtzia...». No, se devo esprimere un mio succulento pensiero, la Grande Guerra non è finita. Ma per comprendere questo la pura storiografia dei fatti non serve che a rievocare e a fare racconto. Ai cimiteri di guerra sparsi in tutta Europa, in qualsiasi lingua siano scritti quei nomi, fate pellegrinaggi, portate fiori e fiori e fiori. E là, piangete per l'uomo.

(G. Ceronetti, La Repubblica 27-06-2014)