Crivella Giuseppe
Due anni fa circa il sommo ma discreto maestro catalano dell'espressionismo astratto se ne andava in silenzio, oscuro forse ai più, dimenticato probabilmente da molti, sicuramente nell'indifferenza di troppi. Se ne andava lasciando dietro di sé un mondo che quotidianamente rischia di naufragare in modo irreversibile verso un frusto sciabordio di immagini, uscendo di scena con il passo felpato e sospeso di chi per decenni ha abitato le soglie reattive della materia convertita in traccia vibrante e ferita felice, impronta deforme e segno nudo, trama corrotta e memoria agonizzante, tutti elementi troppo spesso letti dalla critica quali specchi opachi di un fumoso divenire storico che sembra dibattersi ormai al di fuori dei cardini del tempo, preso in un'ipnotica rotazione immota che scava il solco del presente nelle inferme spoglie del passato, al fine di attingervi illusoriamente le ottuse radici di un futuro già tutto esaurito nella sua irrazionale attesa.
Due anni fa circa il sommo ma discreto maestro catalano dell'espressionismo astratto se ne andava in silenzio, oscuro forse ai più, dimenticato probabilmente da molti, sicuramente nell'indifferenza di troppi. Se ne andava lasciando dietro di sé un mondo che quotidianamente rischia di naufragare in modo irreversibile verso un frusto sciabordio di immagini, uscendo di scena con il passo felpato e sospeso di chi per decenni ha abitato le soglie reattive della materia convertita in traccia vibrante e ferita felice, impronta deforme e segno nudo, trama corrotta e memoria agonizzante, tutti elementi troppo spesso letti dalla critica quali specchi opachi di un fumoso divenire storico che sembra dibattersi ormai al di fuori dei cardini del tempo, preso in un'ipnotica rotazione immota che scava il solco del presente nelle inferme spoglie del passato, al fine di attingervi illusoriamente le ottuse radici di un futuro già tutto esaurito nella sua irrazionale attesa.
Les mains de Clara (1979) |
Orientando il proprio
istinto creativo su di un divenire del tutto inconciliabile con
quello afferente alla prospettiva prettamente storica, Antoni Tàpies,
già dai primi anni della sua produzione, inaugura invece un modus
operandi personalissimo e innovativo, mirante a sollecitare la
tela non come una superficie al di sopra della quale intervenire, ma
come una dimensione fisica all'interno della quale penetrare tramite
l'utilizzo di un tratto capace di incidere la consistenza del
supporto grafico, in modo da trasformare quest'ultimo nel nucleo
vasto e pulsante di una lenticolare trasfiguralità, in forza della
quale la pittura tende a ricollocarsi polemicamente rispetto al
passato, tramutandosi nell'incandescente grembo di reiterate
estenuazioni formali che si producono negli sfocati plessi di una
processualità metamorfica, aperta, proliferante, solitamente
coagulata sulla tela in modo da scomparire, diventando inavvertita al
di sotto dell'ordine figurativo finale [1].
Antoni Tàpies interroga quindi lo spessore invisibile che s'agita dietro la superficie rendendolo eloquente – d'una eloquenza velatamente tragica – attraverso una serie di operazioni tese a scardinarne la vibratile ragnatela di sedimentazioni, al fine di lasciar affiorare da esse nuove energie de/rappresentative secondo un'infiammata cartografia dell'imprevisto che implode sulla tela da un punto d'origine infinitamente remoto seppur collocato immediatamente prima di essa, se non dentro di essa.
L'artista catalano però non sceglie di fendere la tela con un taglio secco e preciso alla Fontana, ma piuttosto cerca di farla erompere provocando in essa, nella sua inviolata compattezza, screpolature e rigonfiamenti, solchi e increspature, rugosità e striature sanguinanti, abrasioni e cedimenti che trans-lavorano il supporto su cui si producono, tramutandolo da sfondo materiale della scena rappresentata a teatro organico di un'azione eruttiva culminante in configurazioni che coincidono con la chair stessa dell'opera [2].
La dischiusura [3] interstiziale e vorace, sporadica ma insanabile, aleatoria seppur scientemente perseguita, ottenuta sollecitando la tela ad esporsi in forza della propria forclusa profondità, permette di risalire le linee del visibile pervenendo a ciò che potremmo definire, parafrasando Courbet, “l'origine dell'immondo”, ove in parallelo la combustione mentale dell'idea si trova perfettamente riflessa nell'opera tramite l'ulcerazione materiale delle cose registrate nella loro spasmodica preformazione.
Antoni Tàpies interroga quindi lo spessore invisibile che s'agita dietro la superficie rendendolo eloquente – d'una eloquenza velatamente tragica – attraverso una serie di operazioni tese a scardinarne la vibratile ragnatela di sedimentazioni, al fine di lasciar affiorare da esse nuove energie de/rappresentative secondo un'infiammata cartografia dell'imprevisto che implode sulla tela da un punto d'origine infinitamente remoto seppur collocato immediatamente prima di essa, se non dentro di essa.
L'artista catalano però non sceglie di fendere la tela con un taglio secco e preciso alla Fontana, ma piuttosto cerca di farla erompere provocando in essa, nella sua inviolata compattezza, screpolature e rigonfiamenti, solchi e increspature, rugosità e striature sanguinanti, abrasioni e cedimenti che trans-lavorano il supporto su cui si producono, tramutandolo da sfondo materiale della scena rappresentata a teatro organico di un'azione eruttiva culminante in configurazioni che coincidono con la chair stessa dell'opera [2].
La dischiusura [3] interstiziale e vorace, sporadica ma insanabile, aleatoria seppur scientemente perseguita, ottenuta sollecitando la tela ad esporsi in forza della propria forclusa profondità, permette di risalire le linee del visibile pervenendo a ciò che potremmo definire, parafrasando Courbet, “l'origine dell'immondo”, ove in parallelo la combustione mentale dell'idea si trova perfettamente riflessa nell'opera tramite l'ulcerazione materiale delle cose registrate nella loro spasmodica preformazione.
Lo
sguardo sprofonda dunque nella spalancata visceralità del
decomporsi, accedendo all'organica ciclicità di un divenire tutto
biologico scandito dal processo ferreo e inesorabile di
consumazione-disgregazione-dispersione-ricombinazione, in cui le
configurazioni che la materia è in grado di assumere durante gli
stati incoativi e in corrispondenza delle fasi finali risultano
ironicamente identificabil [4].
Il ductus di
Tàpies non si presenta più con l'aspetto di una traccia grafica
stesa sulla tela, ma piuttosto si deposita in essa quale tracciato di
un solco, linea di un'incisione, effetto di uno scavo capaci di
mettere in tensione dinamica e caotica tutte le altre componenti
della rappresentazione, così che forma e colore debordano l'una
sull'altra, l'uno dall'altra, l'uno nell'altra, filtrando dal volume
materiale del supporto per dispiegare scenari di microfisiche
apocalissi, tenui geologie di naufragi, flagranti
deterritorializzazioni
del segno, permutando così il portato semantico dell'immagine nel
crepitio inudibile delle cose colte negli stati anteriori al loro
pieno manifestarsi.
Profile (1968) |
Tàpies riesce dunque a elaborare un'inedita
anamnesi dell'immemoriale, attraverso la quale sorprendere gli
oggetti negli istanti sfumati in cui essi si trovano ancora
calamitati in una embriologica eruzione pre-formale, durante la quale
cioè alcuna fisionomia definita o definitiva si è ancora assestata
e tutte le virtualità si trovano ancora nel medesimo stato di
intenso galleggiamento generativo. Sondando così la Prägnanz
figurale [5] dell'immagine, sezionandone il rizomatico nucleo germinativo
e portandolo ad emersione, Tàpies mette a punto la più precisa e
ravvicinata diagnosi dell'informe che sia mai stata tentata, quasi
proseguendo in tal modo le linee di una ricerca e di un'avventura
intellettuale le cui robuste radici affondano probabilmente nel
pensiero di Plotino, per il quale «la
realtà di ciò che è più alto e più desiderabile consiste in ciò
che non ha nessuna forma» [6].
NOTE
1. A. Bonito Oliva, Il sogno dell'arte, Spirali/Vel, Milano, 1990, pp. 77-93.
2. Qui naturalmente il richiamo merleau-pontyano è palesemente in accezione metaforica: la chair a cui mira Tàpies non è quella del mondo e del soggetto esperiente, ma in primis quella dell'opera e, nello specifico, del supporto concreto da cui l'opera prende - o perde - la propria forma.
3. Per il termine /dischiusura/ cfr J-L Nancy, La dischiusura, decostruzione del cristianesimo, Cronopio, Napoli, 2007.
4. Cfr A. Bonito Oliva, Op cit, 181-201.
5. Una sorta di formazione di compromesso tra la nozione di pregnanza desunta direttamente dalla Gestaltpsychologie e il figurale lyotardiano. Per maggiori informazioni è forse utile consultare: https://www.academia.edu/6965584/Derive_del_figurale._Analisi_storico-critica_di_Discours_Figure_di_Jean-Francois_Lyotard.
6. Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Bompiani, Milano, 2004, pp. 1269-1271 e sgg.
NOTE
1. A. Bonito Oliva, Il sogno dell'arte, Spirali/Vel, Milano, 1990, pp. 77-93.
2. Qui naturalmente il richiamo merleau-pontyano è palesemente in accezione metaforica: la chair a cui mira Tàpies non è quella del mondo e del soggetto esperiente, ma in primis quella dell'opera e, nello specifico, del supporto concreto da cui l'opera prende - o perde - la propria forma.
3. Per il termine /dischiusura/ cfr J-L Nancy, La dischiusura, decostruzione del cristianesimo, Cronopio, Napoli, 2007.
4. Cfr A. Bonito Oliva, Op cit, 181-201.
5. Una sorta di formazione di compromesso tra la nozione di pregnanza desunta direttamente dalla Gestaltpsychologie e il figurale lyotardiano. Per maggiori informazioni è forse utile consultare: https://www.academia.edu/6965584/Derive_del_figurale._Analisi_storico-critica_di_Discours_Figure_di_Jean-Francois_Lyotard.
6. Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Bompiani, Milano, 2004, pp. 1269-1271 e sgg.