domenica 27 aprile 2014

Stoker, Park Chan-wook e lo spazio schizofrenico.

Crivella Giuseppe

Si inizia con un'irruzione. Anzi, con una doppia irruzione: quella della tragedia nella vita della quasi maggiorenne India Stoker – la quale, il giorno del suo diciottesimo compleanno, apprende della morte improvvisa del padre Richard in un incidente avvenuto quella stessa mattina – e quella della figura conturbante e enigmatica dello zio Charlie – fratello più giovane del defunto padre – nella grande ed isolata casa di famiglia.
 Da subito lo spazio psichico ed esistenziale [1] della ragazza subisce un violentissimo contraccolpo, si lacera sfaldandosi in una tumultuosa congerie di memorie e pulsioni, nel cui disordinato estrinsecarsi India Stoker riuscirà a pervenire alla propria nuove identità di donna. In primis è infatti il suo corpo che cambia radicalmente, non tanto nella fisionomia, quanto piuttosto nella sete insaziabile di esperienze ormai prive di ogni controllo morale, caricandosi di una ricettività inquieta e profonda, in grado cioè di impregnarsi degli umori più violenti con una delicatezza sempre soffusa d'una selvaggia innocenza, d'uno oscuro candore virginale e vorace, nell'alveo del quale la dimensione prettamente fanciullesca matura con una forza d'affermazione dapprima scomposta e incontrollata, poi lucida e inarrestabile. Ma a mutare nel film non è solo India. Mutano perversamente anche gli spazi in cui questa si trova a muoversi e ad agire. Vi è infatti soprattutto un elemento che in Stoker sotterraneamente pulsa assecondando le regole di un gioco lugubre: un articolatissimo e cerebrale lavorio di orchestrazione dei controcampi nella strutturazione delle varie riprese. In forza di questo stesso lavorio la scena stessa diventa un quarto personaggio, una figura latente e mostruosa, che scivola al di sotto delle immagini risucchiandole dall'interno.
 Si prenda a titolo d'esempio l'emblematico colloquio a tre che impegna India, Charlie e Evelyn in cucina durante il primo quarto d'ora del film. Le tre figure si trovano nella paradossale situazione di occupare porzioni di spazio completamente difformi seppur all'interno di un unico ambiente presuntivamente omogeneo e coerente. Park Chan-wook, segmentando in modo minuto e nervoso i passaggi di camera sulla base del ritmato scambio di battute, opta per una disarticolazione insistita di quello stesso spazio comune in cui i personaggi agiscono, alternando primi piani isolati (e isolanti) di India e Charlie a piani americani in cui di volta in volta una coppia viene contrapposta al terzo, devastando in tal modo non solo la continuità dei luoghi ma gli stessi rapporti che le tre figure intrattengono ad ogni battuta. Siamo di fronte ad una sequenza franta, ottenuta per anacoluti di montaggio, grazie ai quali i vari ambiti in cui i personaggi transitano si dispongono come satelliti reciprocamente repulsivi all'interno di un labirinto mentale, che però non conduce allo smarrimento, ma piuttosto all'incontro di sguardi, parole e vissuti in un punto di confluenza tanto preciso quanto elusivo e beffardo.
 La camera salta da un interlocutore a un altro facendo variare gli angoli di ripresa sempre sulla recisa esclusione di uno dei tre, a sottolineare in tal modo non tanto la espulsione esplicita di questo dal dialogo in corso, quanto la sua perversa funzione di fattore latente e deformante in seno ai rapporti che si instaurano tra gli altri due attori. La rotazione della camera qui non serve assolutamente a legare e a compattare i plessi della conversazione; essa spezza la comunicazione, la altera ponendo al di fuori della linea dialogica dei due parlanti un fosco polo di attrazione, che tramuta il discorso in un ramificato e complesso gioco di allusioni, ammiccamenti, sottintesi. Tuttavia, oltre a tale impervia e sillettica “sostruzione” di spazi orizzontali, gli ambienti della casa si dispongono anche secondo un'altra dimensione, cioè quella propriamente verticale, ricalcando in tale disposizione le polarità nette e contraddittorie dell'apparato psichico freudiano. Nello stabilire tale equivalenza non crediamo affatto di forzare l'interpretazione, tanto più che in tale lettura non facciamo altro che seguire l'esempio di Slavoj Žižek [2], il quale ha proposto qualcosa di molto simile per Psycho di Hitchcock, regista molto amato anche da Park Chan-wook.
 Andando nello specifico, in cosa si sostanzia tale equivalenza? Da una parte nel far corrispondere alla posizione ipogea della cantina l'es di India, spazio isolato dall'esterno e profondo, remotissimo luogo di solitudine e incomunicabilità, ove la fanciulla si ritira quasi regredendo a stadi primigeni della sua formazione; dall'altra nel far valere la camera di Charlie quale polo delle istanze del Super-io: spazio di ordine e controllo, luogo di una visione superiore e distaccata, apparentemente intangibile da parte delle scatenate forze irrazionali di cui India sembra essere portatrice muta e letale. Ma qualcosa non torna. Già come in Thirst (2009), Park Chan-wook mostra tutta la sua maestria nel confondere le idee, arrivando in questo caso ad invertire i valori topologici sovvertendo le corrispondenze a quattro termini così da far risultare la camera stessa di Charlie sprofondata in una dimensione “catabatica” – è in essa infatti che India trova la scatola di scarpe, regredendo in tal modo alle fasi della propria infanzia – ed è di contro in cantina che la ragazza intuisce con lucidità il sordido gioco erotico tra Charlie ed Evelyn, maturando la ferma decisione di chiamarsi fuori da quelle oscene dinamiche. Sottoposto ad una serie così pressante di interruzioni e frazionamenti, ricongiunzioni paradossali e imprecise, coordinazioni forzose e alienanti, lo spazio è qui una componente arditamente metamorfica [3], emblema e riflesso dei mobilissimi vincoli che legano i personaggi in un poligono in perpetua via di definizione. A cosa è dovuta allora tale predisposizione al mutamento di spazio e rapporti? Al fatto che questi orbitano spasmodicamente e inflessibilmente intorno all'elisione improvvisa di ciò che da sempre ne era stato l'elemento aggregante, cioè Richard. La sua scomparsa fa in modo che una fluttuazione pervasiva e ossessionante venga a colpire oggetti e persone: i doni – disposti a mo' di recinto a racchiudere il corpo di India in una delle scene iniziali – si agitano con inquietudine; le lettere ora subiscono una pesante deformazione sull'impeto dei ricordi di infanzia, ora suggeriscono una versione terribilmente altra del passato.
 Ma è proprio nella lacuna lasciata da Richard che viene a situarsi Charlie, presenza densamente ambigua: simultaneamente egli rappresenta una deviante sostituzione simbolica [4] del fratello – attorno a cui India lascia scivolare tutte le proprie torbide spire di un desiderio dettato da un flagrante complesso si Elettra – e un doppio deforme della ragazza stessa, specchio fosco e tenebroso in fondo al quale urlano tutte le pulsioni di morte che lei a stento trattiene in sé. Figura anfibia e insidiosa, su Charlie si stringono quindi tutti i nodi di angoscia e liberazione che dall'es al Super-io si muovono dilaniando la coscienza di India. Figura ellittica, a due fuochi: succedaneo di Richard, Charlie ne è il rovesciamento in quanto occupa il suo posto ma non è garante di ordine, piuttosto è polo di un furioso estrinsecarsi del rimosso; ma al tempo stesso nello zio India finisce anche col riconoscere una parte di sé, rischiando così di fondersi con esso in una simbiosi ferale e spietata, espressione di un delirio concentrico capace di lasciare dietro di sé solo una lunga scia di morte.
 Sovradeterminato nella sua mossa e molteplice identità, Charlie non può non essere destinato a morire e a morire per mano di India. Si tratta di una morte triplice: catartica, perché libera la ragazza dal rapporto velatamente incestuoso; simbolica, perché permette ad India di riportare ordine dentro di sé, mettendo a tacere le pulsioni più (auto)distruttive; compensatoria e autoassolutoria, perché vendica l'uccisione del padre da parte di Charlie e smarca la ragazza da ogni compromissione con tutte le uccisioni che l'arrivo dello zio ha comportato. Egli è propriamente ciò che viene al posto di ciò che non ha nome [5], punto cieco di una coscienza in fieri che scopre nel suo processo di assestamento e riformulazione sacche di imperscrutabile violenza, anfratti e doppi fondi, ove si cela qualcosa d'oscuro e fatale che chiede di essere liberato, espresso, in qualche modo anche disinnescato, concedendogli spazio. Questo spazio di manifestazione e dissipazione è proprio quello della casa: frantumato, incongruo, schizoide [6], esso è parallelo a quello psichico di India, disintegrato ma catalizzato da un graduale riassestamento. Non sarà un caso allora che la serrata dialettica di fantasmi di cui essa era divenuta teatro arriva a soluzione mediante un definitivo gesto di allontanamento, il quale le permette di riappropriarsi della sua vita, non senza prima aver eliminato anche l'ultimo residuo di quell'ordine prettamente formale ed estrinseco che la teneva ancora legata a quei luoghi.

Note

1. Per la dissociazione (e la relativa saldatura) tra i due tipi di spazio cfr J. Lacan, Écrits, Seuil, Paris, 1966.
2. Cfr S. Žižek, Pervert's guide to cinema, 2006, directed by S. Finnies. 
3. J-L Schefer, Figures peintes, POL, Paris, 1999, soprattutto pp. 103-111 e 177-207. 
4. Qui naturalmente non in accezione freudiana. La sostituzione simbolica ha qui una natura perversamente ambigua, anfibia, non colma un desiderio in un modo allucinatorio - come dovrebbe essere secondo l'ortodossia freudiana - ma lo chiama in causa per farlo emergere al fine di liberarsene definitivamente.
5. J. Lacan, Op cit, pp. 97-126.
6. Lettura chiaramente disforica dell'accezione di spazio che G. Bachelard dà in La poétique de l'espace, PUF, Paris, 1994.