venerdì 15 agosto 2014

L'umanista che si perse nel Novecento.

di Alain Finkielkraut

Troisième cahier de la deuxième série
 Péguy è un autore "maledetto": ma è una maledizione estremamente paradossale. È uno degli autori più celebri della letteratura francese: nessuno ignora il suo nome eppure nessuno lo legge. È un nome vuoto, è una specie di illusione, un insieme di cliché biografici: questo è Péguy. Si sa che è morto sul campo con onore: ciò che per tanti anni è stata un'immagine di sfida, è poi divenuta un'immagine ridicola perché è diventato ridicolo morire sul campo con onore. Sono noti anche alcuni elementi biografici che aiutano a conoscere Péguy; ma, per quanto riguarda la sua opera, c'è un triplo discredito che ne impedisce al giorno d'oggi la lettura.
Péguy non viene letto, Péguy non viene studiato, perché viene considerato come un giornalista, come uno stilista e come un fascista. Prima di tutto, Péguy viene percepito come un giornalista. Péguy, al tempo dall'Affaire Dreyfus, sogna un vero giornale, un giornale dove, dice, si scriva stupidamente la verità stupida, si dica noiosamente la verità noiosa, si dica tristemente la verità triste. Questo sogno nasce nel momento in cui Péguy vede la verità manipolata dallo Stato, nel momento in cui vede il partito socialista nascente cercare di strumentalizzare la verità. Da una parte la raison d'état, la ragion di stato, dall'altra la ragione del partito. Per sfuggire a quest'alternativa, fonda i Cahiers de la quinzaine , che significa "quaderno quindicinale": un'esperienza intellettuale unica. Ogni quindici giorni comparivano come dei piccoli libri, dei lunghi articoli, di cui Péguy era al tempo stesso l'editore, il redattore, nonché l'autore di alcuni articoli.
Seconda qualificazione che scoraggia alla lettura: si dice di Péguy «è uno stilista, è un maestro di stile »; in altre parole, si privilegia in lui la forma, e a questo titolo lo si fa finire nella letteratura. E si dimentica così il carattere proprio della sua opera: di essere — tutta insieme ed indissolubilmente — filosofica e letteraria. I filosofi sono dei letterati, e i letterati non sanno analizzare che la forma.
Terza qualificazione, la calunnia più grave: si dice di Péguy che sia il fondatore del nazionalsocialismo alla francese; in altri termini, si permette l'appropriazione di Péguy da parte di Petain. Vichy si è appropriata di Péguy: invece di protestare contro questa appropriazione indebita, la si accetta e la si legittima. Io credo che sia urgente far uscire Péguy dal posto dove è stato relegato, che sia urgente reinserirlo nella cultura viva, e cercherò di chiarire perché.
Cominciamo con una citazione di Péguy che illustra il fenomeno dell'incontro, il momento privilegiato in cui il libro trasmigra in un'altra vita e scrive dei frammenti della nostra quotidianità. Il brano si trova alla fine di un testo che si chiama Les suppliants parallèles . «Alcuni ci dicono invano che il greco si sia rifugiato in un mondo superiore, che il greco resti tutto intero in qualche cattedra, in qualche biblioteca: è questa la più grande stupidità che si sia detta nei tempi moderni, in cui pure non si è certo rinunciato a dire delle stupidaggini. È come se si dicesse che gli antichi Egizi vivono e rivivono nelle mummie dei sarcofagi delle sale, ai piani inferiori del Louvre. In realtà vi è un abisso per una cultura, per una storia, per una vita passata nella storia dell'umanità, per un'umanità in ultima istanza, tra il figurare il suo rango lineare nella memoria, nell'insegnamento di qualche sapiente e nei cataloghi di qualche biblioteca, e l'incarnarsi, invece, tramite degli studi secondari, tramite delle umanità e degli studi umanistici, in tutto il corpo pensante e vivente, in tutto il corpo che sente di tutto un popolo, in tutto il corpo degli artisti, dei filosofi, dei poeti, degli scrittori, dei sapienti, degli uomini d'azione, di tutti gli uomini colti, dei critici perfino e degli storici, di tutti gli uomini di gusto, di tutti gli uomini di senso, di tutti gli uomini di integrità e di fecondità; di tutti questi uomini, in poche pascaffali role, che formavano un popolo colto nel popolo, in un popolo più vasto. Sono due esistenze che non appartengono allo stesso ordine: l'esistenza nel corpo dei produttori di tutto un popolo è un'esistenza di vita, l'esistenza sugli di qualche biblioteca è un'esistenza di morte».
Mi pare di leggere in questo testo una risposta molto attuale del nostro tempo: quello che ci minaccia non è
Un ritratto di Charles Péguy
tanto il regresso definitivo nell'ignoranza, quanto piuttosto una specializzazione, una professionalizzazione ad oltranza della vita della mente, negli specialisti, nei ricercatori, sempre più competenti in ambiti sempre più ristretti: è questo che Péguy chiama un'esistenza di morte. E a quest'esistenza di morte, vale a dire a questo abbandono della vita dello spirito e della mente alla professionalizzazione, Péguy risponde con ciò che chiama le umanità, gli studi umanistici, in altri termini la cultura generale: mantenerla è la vera posta in gioco.
Al tempo stesso, così parlando, Péguy appare come qualcuno che ha ereditato il Rinascimento, come un umanista nel senso che il Rinascimento donava a questo termine. Come scriveva Eugenio Garin, la prima idea rivoluzionaria del Rinascimento è che l'educazione sia un mezzo per l'uomo di accedere alla sua umanità. In altre parole, il Rinascimento conferisce alla grande idea, che ha fatto l'Europa, della cura dell'animo una definizione umana e nient'altro che umana. Quando ci si occu- pava della cura dell'anima era in una prospettiva metafisica, di elezione, al di fuori del mondo; la cura dell'anima ridefinita dal Rinascimento è, invece, la cura di se stessi nel mondo e per il mondo.
Seconda idea rivoluzionaria che il Rinascimento ci ha lasciato, dice Garin, l'uomo non accede alla sua umanità se non tramite il passaggio attraverso le opere della cultura, se non tramite la conversazione, che costituisce la lettura delle opere ammirevoli. E, terza idea, l'umanità è appannaggio di tutti gli uomini: dunque è necessario che tutti gli uomini si spingano verso questa esperienza. Péguy eredita questa terza idea: per definirlo, direi che si tratta di un umanista sperduto nel modo moderno, perché Péguy è moderno. Si è concluso, invece, che è stato un nostalgico della tradizione. Péguy è l'Umanesimo, nel senso che il Rinascimento ha dato a questa parola; è contro l'Umanesimo moderno, se si riprende la definizione che Heidegger ha dato alla parola Umanesimo: cioè, l'uomo considerato come padrone e sovrano della natura e della storia. Péguy nasce alla politica come socialista, e, molto rapidamente, si rende conto che il suo socialismo non è lo stesso di quello degli altri.
Quello che caratterizza il pensiero di Péguy, l'altra conseguenza della sua visione dell'umanità come pluralità, è che lui è un pensatore dell'evento: secondo Péguy, la storia è per definizione imprevedibile, precisamente perché l'umanità è plurale, perché noi non siamo Dio. Non c'è un punto di vista onnicomprensivo, onniinglobante che un uomo possa raggiungere: gli eventi sono sempre eccedenti rispetto a ciò che noi possiamo conoscerne. Noi non siamo, non possiamo essere padroni, possessori della storia. Anche qui si distingue dai socialisti, che vedono la storia, nel suo complesso, come qualcosa che li guarda dall'alto che pensano di poter decidere chi sia superato, chi non sia più di moda e chi, invece, abbia diritto all'esistenza. Péguy rientra nel tempo come i moderni, ma rifiuta di fare del tempo il proprio nuovo domicilio: il tempo è tempo, cioè il tempo è il rischio, è la possibilità della morte: tutto ciò che è nato può morire e gli eventi non sono prevedibili.

(Tratto da A. Finkielkraut, Charles Péguy. Non ti ho detto ancora tutto. A cura di Giampaolo Pignatari)

Per La Biblioteca di Morel articolo selezionato da M. G. Crivella.