di Maurice Blanchot [*]
E. Lévinas |
Ma
è diverso. La Torah è scritta non soltanto per essere conservata
(custodita in memoria), ma perché «Dio» privilegia forse la
scrittura, rivelandosi come il primo e l'ultimo scrittore. (Nessun
altro oltre lui ha potere di scrivere). «E per quale diritto ora tu
scrivi?» – «Ma io non scrivo». Ciò che accade in seguito è
tutto noto pur restando sconosciuto (conosciuto sotto la forma di una
storia). Dal momento che Mosè non faceva ritorno [2]
(quaranta giorni
quaranta notti d'assenza – il tempo in anni della traversata del
deserto), il popolo dubitò e reclamò altri Signori o una guida
diversa. Qui introduco senza dubbio una interpretazione scorretta.
Aaronne, fratello di Mosè, Aaronne che aveva il dono della parola
che mancava a suo fratello [3], (ritorneremo su questo punto) fece
ricorso a un'astuzia (l'astuzia gioca un gran ruolo nella storia
ebraica, così come nella storia greca: le vie non sono diritte – è
un danno, un danno che ci costringe a cercare liberamente la
rettitudine). Aaronne domanda a tutti e a tutte di rinunciare ai
propri ornamenti preziosi: orecchini, collane, anelli ecc – in una
parola egli li spoglia
e
con ciò che apparteneva loro confeziona qualcosa, un oggetto, una
figura che non gli apparteneva. Quale fu l'errore di Aaronne in
questa abile astuzia in cui egli finì col perdersi? Divenne artista,
s'arrogò il potere creatore, sebbene l'immagine che forgiò fosse
tale da dover risvegliare la diffidenza dei suoi ammiratori (un
vitello e un vitello d'oro) [4]. Altrimenti detto, gli ebrei
ritornavano agli dei dell'Egitto in cui essi erano stati schiavi (il
vitello evoca forse Anubi, testa di sciacallo, o il toro Api).
Infelici laggiù, supremamente infelici, essi ne avevano serbato
nostalgia. Liberi ora, ma non sentendosi capaci di sopportare il peso
della libertà, il suo carico, il suo peso.
Mi
sembra che Mosè perduto fra le altezze, con le sue Tavole in cui
egli aveva la sovrana e primissima scrittura, non presentisse niente.
Fu necessario che «Dio» lo avvertisse. Torna giù, torna giù, lì
è la catastrofe. Mosè ridiscende con le Tavole e vede il disastro
[5]. Furore di distruzione, pertanto: il vitello egiziano è ridotto
in polvere, l'immagine scompare, e la materia preziosa (l'oro)
respinta, annientata. Ma la distruzione va oltre: poiché Mosè
distrugge, infrange le Tavole [6]. Noi ci domandiamo: come può
essere possibile? Come Mosè può distruggere l'indistruttibile? La
scrittura scritta non da lui, ma dall'Altissimo? Ciò vuol dire:
tutto si cancella, tutto deve cancellarsi? Non sembra che «Dio»
veda con rigore questo atto che può qualificarsi a torto come di
iconoclasta. Al contrario, il furore oltrepassa ogni misura. Il
popolo, così spesso salvato, è minacciato, minacciato d'essere
annientato. Non c'è niente da fare con questo popolo, già celebre
(e celebrato) per la sua dura
cervix
(una cervice che il lavoro di schiavitù ha indurito) [7]. «Dio» ha
una o due volte (forse di più) questa tentazione – tentazione che
è destinata a mettere alla prova Mosè: abolire tutto il passato e
ricominciare con il solo Mosè che perpetuerà la Legge e genererà
un nuovo popolo (ciò non vuol dire certo che esso avrà un'altra
origine – egiziana per esempio – ma altra tuttavia perché si sa
responsabile di tutte le altre – ah, pesante fardello).
Ma
Mosè, quest'uomo strano e reso straniero dal compito e dalla scelta
che lo ha colpito per portarlo a termine (perché ha preso moglie
lontano, in una famiglia non ebrea, originaria del Kouch, etiope
probabilmente e nera, mal accolta per questo da Aaronne, già un po'
razzista, Miriam, «donna che, è vero, più tardi si convertirà (ed
anche il padre)». Così noi apprendiamo che la conversione, secondo
alcuni riti, è giusta, anche se essa non è raccomandabile. Sì,
Mosè è essenzialmente umile (è la sua kenosi),
non vuole fare da capostipite al di sopra di questo popolo infelice e
tanto più infelice quanto più esso è sprovveduto, colpevole
d'essere impaziente, e questa impazienza, virtù e pecca di coloro
che non sanno attendere, per chi la salvezza (il Messia) deve venire
immediatamente, condurrà a un castigo, ma non all'annientamento.
Dopo di ciò, tutto ricomincia: la risalita di Mosè, l'assenza, la
frustrazione e l'espiazione dei quaranta giorni e delle quaranta
notti, l'obbedienza al compito di cercare e di scolpire (non è
un'arte rozza?) le due tavole simmetriche di pietra, sulle quali il
dito di «Dio»
scrive di nuovo, una seconda volta, la Legge, (ciò che la lingua
greca denominerà il Decalogo) [8]. Qui è anche l'umiltà di Dio,
nonché il mistero della scrittura. Se l'umiltà di Dio accorda il
ricominciamento, resta che, per colpa dell'uomo, è come se non vi
fosse una prima scrittura: ogni prima scrittura è già seconda, è
la propria secondarietà. Da qui il dibattito infinito sulle due
Torah (non la Torah infranta e la Torah intatta – questa ricerca
sarà la tentazione, il pericolo mistico), ma la Torah scritta e la
Torah orale: una superiore all'altra, la prima bianca, la seconda
nera – bianca, cioè vergine (la pagina bianca) e come scritta o
piuttosto non sottoposta alla lettura, sfuggente ad essa, costituita
da una traccia intemporale, senza età, un segno anteriore ad ogni
tempo, anteriore alla creazione stessa? Ma tale segno, questa traccia
e questi bianchi non sono criptici, difficili o impossibili da
decifrare che per i non-studenti, l'allievo senza maestro, il
conoscitore temerario (ciò che io sono qui). La Torah orale è
allora superiore, nella misura in cui essa rende leggibile
l'illeggibile, scopre il nascosto, risponde al suo nome che è
insegnamento, lettura infinita che non può essere condotta da soli,
ma sotto la direzione di un Maestro, di tutta una linea di Maestri,
impegnati a «strappare» sempre dei nuovi sensi, senza dimenticare
tuttavia la prima regola: tu non aggiungerai niente, tu non
sottrarrai niente.
Non
siamo quindi noi ricaduti nel dibattito che Jacques Derrida ci ha
reso non presente, ma nei confronti del quale ci ha messo in guardia
al fine di non trascurarlo pur mantenendolo in disparte?
Prima
del mistero della scrittura delle Tavole, Mosè, lo sappiamo, s'è
interrogato sulla Voce. Per lui parlare non è una cosa che vada da
sé. Quando «Dio» gli comanda di parlare al Faraone affinché
questo liberi gli schiavi ebrei (abolisca la schiavitù), Mosè è
molto affranto, perché (secondo la traduzione di Chouraqui [9])
egli sa e ricorda d'essere «pesante di bocca, pesante di lingua,
dalla labbra impure» [10], dunque incapace d'utilizzare il
linguaggio dell'eloquenza e della retorica che si addice ai grandi di
questo mondo. Da qui l'irritazione divina. Mosè precisamente è
stato scelto perché non è un buon parlatore, perché ha delle
difficoltà di linguaggio: senza il controllo di Voce, senza dubbio
balbettante. Mosè si farà dunque doppiare da suo fratello Aaronne,
più dotato di lui per quanto riguarda le questioni mondane (sempre
problemi e segreti con i fratelli), ma anche (e io anticipo questo
tremando) inabile a parlare se non doppiando, ripetendo le parole,
fossero pure supreme, a causa del suo biascicamento, non fisico, ma
«metafisico».
André Chouraqui |
Dio,
dice Levinas, non è conoscenza, né una non conoscenza pura e
semplice, è obbligo dell'uomo di fronte a tutti gli altri
uomini. Quanto al nome esso non è che Yaveh, di cui Chouraqui
precisa oggi – nella dispersione – che nessuno sa come fosse
pronunciato perché, aggiunge Lévinas, il Tetragramma non poteva
esserlo che dal solo Grande Sacerdote nell'entrare nel Sancta
Sanctorum il giorno del Grande Perdono ovvero, per il giudaismo del
post-esilio, mai
(Al
di là del Versetto [16]).
Jacques
Derrida, esplicitando le esigenze dello sdoppiamento della Torah,
sdoppiamento che è già iscritto nella maniera in cui la Torah è
scritta «dal
dito di Dio»: «La Torah è scritta con del fuoco bianco su del
fuoco nero». Il fuoco bianco, testo scritto in lettere
invisibili (fatte
per sfuggire alla vista) si dà a leggere nel fuoco nero della Torah
orale che viene après
coup [17]
a disegnarvi le consonanti e a puntualizzarvi
le vocali:
Legge o Verbo di fuoco, dirà Mosè.
Ma
se la Torah di pietra è l'iscrizione di Dio, iscrizione che come
tale dispiega i comandamenti, scrittura che non può non leggersi
come prescrizione, è anche detto nell'Esodo
(24, 4), e questo prima delle Tavole (supponendo, e vi è motivo di
dubitarne, che vi sia in un tale momento al quale manca la presenza,
un prima e un dopo – ovvero un ordina narrativo), che «Mosè
scrive tutte le parole di Dio». Mosè ha dunque il dono della
scrittura, se non ha il dono della parola – e egli scrive perché i
Vecchi di Israele, i Saggi, hanno preliminarmente dichiarato: «Tutte
le parole di cui “Dio” parla, noi le faremo». Forse essi non lo
comprendono o, nella traduzione di Chouraqui [18], non riescono a
penetrarlo nella loro rettitudine, come nei loro continui
andirivieni, ma l'importante è farlo
e
questa promessa del compimento suggella la scrittura di Mosè, si fa
per Mosè scrittura – scrittura e memorizzazione. Noi
sottolineeremo qui brevemente quale differenza si stabilisce tra
Platone e Mosè: per il primo, la scrittura esterna, straniera, è
dannosa, perché supplisce alla perdita della memoria e così
incoraggia il venir meno della memoria vivente (perché ricordare se
è scritto?). Per Mosè certo la scrittura assicura la
memorizzazione, ma essa è anche (o da principio) il «fare»,
l'«agire», l'esteriorità che precede l'interiorità o l'instaurerà
– nello stesso modo il Deuteronomio, in cui Mosè riprenderà tutta
la storia dicendo «Io», raddoppia e prolunga il difficile Esodo.
Derrida con il suo gatto Logos |
Mosè
è un mediatore? Mediatore del suo popolo, organizzato in comunità e
vociferante contro di lui, allorché questo fallisce. Esso non si
riconosce in lui: «Noi non sapevamo, dicono gli Ebrei ad Aaronne,
chi fosse colui che ci conduceva». Altro, malgrado la sua
fraternità, le sue costanti intercessioni, finanche i suoi castighi.
Mediatore di Dio di cui trasmette i comandamenti? Dio è senza
mediazione, dice, se non sbaglio, Levinas. Da qui deriva che la
responsabilità di Mosè è libera, e che per lui è necessario
subire, in punizione, le parole di troppo attraverso cui egli ha
importunato l'Altissimo, parole di invocazione, di supplica per i
fuggiaschi che dimenticano di esserlo e vogliono «stanziarsi».
Ci
si può domandare quale fosse «l'errore» di Mosè, errore che gli
impedirà di raggiungere «la buona terra». Ci sono sicuramente
delle risposte privilegiate. Ma già in questo desiderio di
raggiungere e di riposarsi vi è una speranza di troppo. Egli può
vedere e non avere. Il riposo che gli è riservato è forse
superiore. «É uno dei misteri di Elohim» che non è possibile
svelare, che che richiedono l'insegnamento senza fine. Si dice,
analizzando il Deuteronomio: Mosè non ha potuto raccontare, scrivere
la sua morte (scetticismo critico). Perché no? Egli sa (di un sapere
non lucido) che muore per «Dio» «sulla bocca di Dio», ultimo,
estremo comandamento in cui v'è tutta la dolcezza della fine – ma
fine sottratta. La morte, che è necessariamente nella vita, (da
Adamo) «non ha luogo qui nella vita» (Derrida). E Dio, facendosi
becchino (Levinas), prossimità che non promette la sopravvivenza, lo
seppellisce nella valle, in terra di Moab, in un luogo senza luogo
(atopico). «Fino ad oggi nessuno conosce la sua sepoltura», cosa
che autorizza i superstiziosi a dubitare della sua morte, come si
dubiterà di quella di Gesù. È morto ma «il suo occhio non s'è
offuscato, non è svanita la sua linfa». Egli ha un successore,
Giosuè, e non ne ha (alcuna eredità diretta; egli stesso ha
rifiutato questa trasmissione). Non
s'è levato ancora in Israele uno ispirato come Mosè.
«Non ancora». Scomparsa senza promessa di ritorno. Ma la scomparsa
dell'«autore» conferisce all'insegnamento una necessità ancora
maggiore, scrittura (traccia anteriore ad ogni testo) e parola,
parola nella scrittura, parola che non vivifica una scrittura che
altrimenti sarebbe morta, ma al contrario ci sollecita ad andare
verso gli altri, nella premura del lontano e del prossimo, senza che
ci sia dato ancora di sapere che è da principio il solo cammino
verso l'Infinito.
NOTE
* Traduzione di Grâce (soit rendue) à Jacques Derrida,
Revue Philosophique de la France et de l'Étranger, T. 180, No. 2,
DERRIDA (AVRIL-JUIN 1990), pp. 167-173. Integralmente reperibile
presso il sito http://www.jstor.org/.
Rendere il titolo in italiano non è agevole: sebbene il francese abbia il termine /merci/ per indicare il nostro /grazie/, vi sono locuzioni, per lo più alquanto risalenti, in cui anche /grâce/ rientra pienamente nell'ambito semantico del /ringraziamento/. Dal momento che è sommamente arduo rendere questa doppia sfumatura di /grâce/, preferiamo optare per una sorta di lectio difficilior enfatizzando, visto anche il contesto, il semantema proprio della grazia.
Tutte le note sono del traduttore.
Rendere il titolo in italiano non è agevole: sebbene il francese abbia il termine /merci/ per indicare il nostro /grazie/, vi sono locuzioni, per lo più alquanto risalenti, in cui anche /grâce/ rientra pienamente nell'ambito semantico del /ringraziamento/. Dal momento che è sommamente arduo rendere questa doppia sfumatura di /grâce/, preferiamo optare per una sorta di lectio difficilior enfatizzando, visto anche il contesto, il semantema proprio della grazia.
Tutte le note sono del traduttore.
1.
Esodo
33, 23.
2.
Ivi
34, 28.
3.
Ivi
4, 14-16.
4.
Ivi
32, 1-29.
5.
Ivi
32, 7.
6.
Ivi
32, 19.
7.
Ivi
6, 9.
8.
Ivi
32-33.
10.
Esodo
4, 10.
11.
Ivi
3, 4.
12.
Henri Meschonnic, Les
Noms, traduction de l'Exode,
Desclée de Brouwer, 2003.
13.
Cfr nota 10.
14.
Edmond Fleg – nom
de plume
di Edmond Flegenheimer – fu romanziere, saggista drammaturgo
ebreo-francese vissuto tra la fine dell'Ottocento e il primo
Novecento. Blanchot fa riferimento ai suoi studi sul pensiero
ebraico, ma è difficile stabilire con precisione quale sia l'opera
qui direttamente chiamata in causa.
15.
David Banon, fine studioso della cultura ebraica. Cfr soprattutto La
Lecture infinie: les voies de l’interprétation midrachique,
préfacé par Emmanuel Lévinas. Paris, Éditions du Seuil, 1987 e
Entrelacs.
La lettre et le sens dans l’exégèse juive.
Éditions du Cerf, Paris 2008.
16. E. Lévinas, L'Au-delà du verset : lectures et discours talmudiques, Paris, Minuit, 1982.
17. Lasciamo non tradotta questa espressione che è assolutamente
portante non solo nel pensiero di Derrida, ma anche nella riflessione
di Blanchot.
18.
Cfr nota 10.
19.
Il testo originale reca /defaillant/; noi rendiamo con
/inadempiente/, intendendo però /inadempiente per debolezza/,
esplicitando in tal modo un tratto semantico contenuto nel lemma
francese, ma assente invece nel termine da noi scelto per la resa in
italiano.
20.
Esodo
17, 8-16.
Sia l'esodo che la voce rinviano ad un'uscita. Richiamano l'abbandono di uno spazio, estraneo nel primo caso, proprio - forse intimo - nel secondo e puntano ad accedere nella latitudine ineffabile di un altrove da cui sia preclusa ogni possibilità di ulteriore sortita.
L'esodo è il luogo di un transito, è lo spazio definito dal transito che ha luogo in esso e che dà luogo ad esso, in uno sdoppiamento necessario e irriducibile di questo stesso luogo in due poli - provenienza e arrivo - tra i quali il cammino prende forma e si precisa, a volte coi caratteri di uno spostamento orientato, altre volte assumendo la fisionomia di uno smarrimento, spesso oscillando senza resto tra i due, in una compenetrazione intestina e indistinta di entrambi i poli, che giungono a sovrapporsi secondo la misura di un passo compiuto ignorando la propria destinazione o forse individuata solo azzardandola.
La voce in egual modo si situa nell'intervallo insensibile di un attraversamento e fa del proprio avvento il non-luogo ove può instaurarsi il frangente prezioso e fragile del silenzio, dell'attesa anteriore alla parola, violata e al tempo stesso rafforzata da questa.
La voce e l'esodo disegnano in absentia lo spazio a partire dal quale sarà possibile la loro manifestazione, aprendo quel vuoto inavvertito e insondabile in seno al quale sono chiamati a raccolta i nomi utilizzati fino alla loro estrema consumazione per indicare in uno stesso gesto i limiti dell'indicibile e i margini dell'inaccessibile.
La voce e l'esodo eludono la mediazione nel momento stesso in cui pongono le condizioni che dovrebbero legittimarla o provocarla. Il contatto che essi propongono ha pertanto le dimensioni di una distanza senza rapporto, che separa ciò che si fronteggia in una frantumata agonia di lontananze, in un sistema aperto di scambi strutturato a partire dalla impossibilità di un incontro. Incontro dunque come rottura, rottura con Dio, da Dio, in Dio. Da qui l'origine della storia, della narrazione, della scrittura e dell'interpretazione; della scrittura vista come foglio bianco pieno di strade, lungo cui l'interpretazione del libro si muove e si anima come una linea definitivamente spezzata che un tempo raccordava la parola perduta e la parola promessa e in cui tutte le lettere formano l'assenza del locutore. In tal modo l'interpretazione diventa interrogazione interminabile, rottura stessa di ogni totalità.
La scrittura appare qui come quello spazio infinito in cui si annuncia da ogni lato la possibilità della propria estinzione, la cessazione improvvisa di quell'apertura che cerca di riflettere se stessa attraverso la comparsa di un altrove collocato al proprio centro, come un occhio nell'occhio, come una voce anonima la quale tenti di proferire unicamente il proprio ripetersi in un doppio che sia la cifra ignota del suo ritorno verso ciò che la altera e la aliena, la rappresenta mediante quella soglia che ne solca recisamente l'identità rendendola un centro ellittico. La scrittura qui lavora come una ripetizione che tenti di replicare ciò che non si è mai prodotto, simile a una veglia nell'intervallo dei limiti, per dirla con Jabès.
La scrittura come esodo della Voce o dalla Voce? Semplicemente, scrittura come memoria notturna di ogni linguaggio.
(Traduzione e commento di Crivella Giuseppe)
Sia l'esodo che la voce rinviano ad un'uscita. Richiamano l'abbandono di uno spazio, estraneo nel primo caso, proprio - forse intimo - nel secondo e puntano ad accedere nella latitudine ineffabile di un altrove da cui sia preclusa ogni possibilità di ulteriore sortita.
L'esodo è il luogo di un transito, è lo spazio definito dal transito che ha luogo in esso e che dà luogo ad esso, in uno sdoppiamento necessario e irriducibile di questo stesso luogo in due poli - provenienza e arrivo - tra i quali il cammino prende forma e si precisa, a volte coi caratteri di uno spostamento orientato, altre volte assumendo la fisionomia di uno smarrimento, spesso oscillando senza resto tra i due, in una compenetrazione intestina e indistinta di entrambi i poli, che giungono a sovrapporsi secondo la misura di un passo compiuto ignorando la propria destinazione o forse individuata solo azzardandola.
La voce in egual modo si situa nell'intervallo insensibile di un attraversamento e fa del proprio avvento il non-luogo ove può instaurarsi il frangente prezioso e fragile del silenzio, dell'attesa anteriore alla parola, violata e al tempo stesso rafforzata da questa.
La voce e l'esodo disegnano in absentia lo spazio a partire dal quale sarà possibile la loro manifestazione, aprendo quel vuoto inavvertito e insondabile in seno al quale sono chiamati a raccolta i nomi utilizzati fino alla loro estrema consumazione per indicare in uno stesso gesto i limiti dell'indicibile e i margini dell'inaccessibile.
La voce e l'esodo eludono la mediazione nel momento stesso in cui pongono le condizioni che dovrebbero legittimarla o provocarla. Il contatto che essi propongono ha pertanto le dimensioni di una distanza senza rapporto, che separa ciò che si fronteggia in una frantumata agonia di lontananze, in un sistema aperto di scambi strutturato a partire dalla impossibilità di un incontro. Incontro dunque come rottura, rottura con Dio, da Dio, in Dio. Da qui l'origine della storia, della narrazione, della scrittura e dell'interpretazione; della scrittura vista come foglio bianco pieno di strade, lungo cui l'interpretazione del libro si muove e si anima come una linea definitivamente spezzata che un tempo raccordava la parola perduta e la parola promessa e in cui tutte le lettere formano l'assenza del locutore. In tal modo l'interpretazione diventa interrogazione interminabile, rottura stessa di ogni totalità.
La scrittura appare qui come quello spazio infinito in cui si annuncia da ogni lato la possibilità della propria estinzione, la cessazione improvvisa di quell'apertura che cerca di riflettere se stessa attraverso la comparsa di un altrove collocato al proprio centro, come un occhio nell'occhio, come una voce anonima la quale tenti di proferire unicamente il proprio ripetersi in un doppio che sia la cifra ignota del suo ritorno verso ciò che la altera e la aliena, la rappresenta mediante quella soglia che ne solca recisamente l'identità rendendola un centro ellittico. La scrittura qui lavora come una ripetizione che tenti di replicare ciò che non si è mai prodotto, simile a una veglia nell'intervallo dei limiti, per dirla con Jabès.
La scrittura come esodo della Voce o dalla Voce? Semplicemente, scrittura come memoria notturna di ogni linguaggio.
(Traduzione e commento di Crivella Giuseppe)