Traduzione di Maria Gaia Crivella
Claude Lévi-Strauss |
In un’opera recente
sull’analisi formale dei miti, Buchler e Selby sostengono (p. 68)
[1] che si possono formulare regole che permettono di dedurre
successivamente tutte le trasformazioni mitiche a partire da una
qualunque tra di esse, a condizione di riconoscere il carattere “non
ricorsivo” o “indecidibile” di queste. Questo è vero, senza
dubbio, di ciascun mito preso separatamente; ma abbiamo mostrato come
queste sequenze “indecidibili”, tenuto conto di questo o quel
mito particolare, si riducono spesso a trasformazioni reciproche, in
qualche modo perpendicolari a più discorsi mitici sovrapposti [2].
Si può dunque dar ragione a questi autori finché ci si limita
all’analisi di un mito o di un gruppo determinato di miti; ma è
proprio di un mito o di un gruppo di miti di impedire di
rinchiudervisi: viene sempre un momento, nel corso dell’analisi, in
cui un problema si pone e, per risolverlo, si è obbligati a uscire
dal cerchio che l’analisi aveva tracciato. Lo stesso gioco di
trasformazioni, che permette di ricondurre l’una all’altra le
sequenze di un mito dato, si estende in modo quasi automatico alla
sequenza indecidibile, ma ugualmente riducibile al di fuori del mito
ad altre sequenze indecidibili, provenienti da miti a proposito dei
quali si poneva lo stesso problema.
In fin dei conti, per
ogni sistema mitologico non c’è che una sequenza assolutamente
indecidibile. Ricondotta da trasformazioni successive ai suoi
contorni essenziali, essa si riduce all’enunciato di una
opposizione o, più esattamente, all’enunciato dell’opposizione
prima tra tutte quelle date.
Così per l’America,
sia del Nord che del Sud, abbiamo potuto verificare che diverse
centinaia di racconti in apparenza molto diversi tra loro e ognuno
per suo conto molto complesso, procedono da una serie di
constatazioni concatenate: c’è il cielo e c’è la terra; tra i
due non sapremmo concepire la parità; di conseguenza, la presenza in
terra di questa cosa celeste che è il fuoco costituisce un mistero;
infine, e poiché il fuoco del cielo si trova ora quaggiù come
focolare domestico, si è reso necessario che dalla terra si sia
andati in cielo per cercarlo.
Da ciò risulta che la
sequenza assolutamente indecidibile si riduca, se non
all’affermazione empiricamente decidibile che c’è un mondo
(quando niente sarebbe potuto esistere) almeno a quella che questo
essere del mondo consiste in una disparità. Del mondo non si può
dire puramente e semplicemente che è: è sotto la forma di una
asimmetria prima, che si manifesta diversamente secondo la
prospettiva in cui ci si pone per apprenderlo: tra l’alto e il
basso, la terra ferma e l’acqua, il vicino e il lontano, la
sinistra e la destra, il cielo e la terra, il maschio e la femmina,
ecc. Inerente al reale, questa disparità dà impulso alla
speculazione mitica; ma perché essa condiziona, non solo il
pensiero, ma l’esistenza di ogni oggetto di pensiero.
Un assortimento di
opposizioni, in qualche modo montato in anticipo nell’intelletto,
funziona quando esperienze ricorrenti, che possono essere di origine
biologica, tecnologica, economica, sociologica, ecc. azionano il
comando, come quei comportamenti innati che si attribuiscono agli
animali, e le cui fasi si svolgono automaticamente a partire da una
circostanza che fa scattare gli ingranaggi. Ugualmente sollecitata da
tali circostanze empiriche, la macchina concettuale si mette in moto;
da ogni situazione concreta, per quanto complessa possa essere, essa
estrae infaticabilmente del senso, e fa di essa un oggetto di
pensiero piegandola agli imperativi di un’organizzazione formale.
Ugualmente, è applicando sistematicamente delle regole d’opposizione
che i miti nascono, sorgono, si trasformano in altri miti che si
trasformano a loro volta; e così di seguito, finché soglie
culturali o linguistiche troppo ardue da varcare o l’inerzia
propria della stessa macchina mitica non liberano più che forme
indebolite e rese irriconoscibili, perché i caratteri propri del
mito sfumano a vantaggio di altre forme d’elaborazione del reale
che possono, secondo i casi, appartenere al romanzo, alla leggenda o
alla favola concepita a fini morali o politici [3].
Il problema della genesi
del mito si confonde dunque con quello del pensiero stesso, la cui
esperienza costitutiva non è quella dell’opposizione tra me e
l’altro, ma dell’altro appreso come opposizione. In mancanza di
questa proprietà intrinseca, la sola, in verità, che sia
assolutamente data, non sarà possibile alcuna presa di coscienza
costitutiva del me. Non essendo percepibile come rapporto, l’essere
equivarrebbe al niente. Le condizioni per la comparsa del mito sono
dunque le stesse di ogni pensiero, poiché esso non saprebbe essere
che pensiero di un oggetto e un oggetto non è tale, se semplice e
spogliato ciò che lo concepisce, che del fatto che costituisce il
soggetto come soggetto e la coscienza stessa come coscienza di una
relazione.
Perché un mito sia
generato dal pensiero e generi a sua volta altri miti, è necessario
e sufficiente che una prima opposizione si inietti nell’esperienza,
da cui risulterà che altre opposizioni saranno iniettate di seguito.
Quella tra alto e basso ammette tre modalità, secondo cui il
passaggio da un polo all’altro si produce in un certo senso, nel
senso contrario o in entrambi. Talvolta mantenuto verticale, talvolta
posto in orizzontale, o ancora in entrambi i sensi insieme, l’asse
di relazione avrà per poli il cielo e la terra, il cielo e l’acqua,
la terra ferma e l’acqua. Nell’ordine dei corpi celesti, astri
individuali come il sole e la luna si oppongono alle costellazioni e
quelle, o i corpi celesti tutti insieme, alla massa indistinta delle
stelle anonime. Considerati nel loro rapporto reciproco, il sole e la
luna stessi possono essere entrambi maschi, entrambi femmine, o
appartenere a sessi diversi [4]; essi potranno essere anche estranei
l’uno all’altra, amici, consanguinei o alleati. Ugualmente e
quali che siano i protagonisti, la parentela concepita sul modello
della consanguineità o dell’alleanza sarà ascendente o
discendente, diretta o obliqua, considerata dal punto di vista di chi
prende donne o di chi dà. A ogni livello d’opposizione
corrispondono altre imprese speculative per conferire un senso ad
altrettanti tagli praticati nel reale.
Lévi-Strauss con Oppenheimer e Whipple |
Resta da sapere perché,
nel caso di cui ci occupiamo, tutti i fili conduttori di queste
imprese multiple sembrano convergere verso una regione tutto sommato
limitata dell’America del Nord, a cui gli etnologi, almeno sotto
questo aspetto, non hanno prestato particolare attenzione. È là,
pertanto, che si giustappongono le forme più deboli del mito sulle
spose degli astri, talvolta ridotto alle proporzioni di un racconto
di campagna – stato più debole di questo insieme già molto debole
che costituiscono le versioni dette della mezzaluna settentrionale -
e quelle di forme forti che possiamo considerare come le più forti
di tutte, e di cui la guerra tra esseri terrestri e celesti per la
conquista del fuoco fornisce il tema.
Ora, questa singolarità
non è la sola che colpisce quando consideriamo quella che per
semplificare chiameremo l’area dell’Oregon. È anche là che
troviamo, giustapposti in maggior numero, i gruppi umani più
piccoli, occupante ciascuno un territorio ridotto, e che differiscono
dai loro immediati vicini per lingua, tradizioni, spesso anche per la
cultura. Per attenerci al solo aspetto linguistico, sulla costa
pacifica e nell’immediato entroterra, tra il 40º e 50º parallelo
abitavano insieme a pochi chilometri di distanza le famiglie più
diverse: Penutian, Hokan, Athapaskan, Algonkin, Chinook, Salish,
Chemakum, Wakashan… Non è tutto. Quando si considera una carta
della distribuzione tribale e linguistica come quella, ora classica,
compilata da Driver, Cooper, Kirchhoff, Massey, Rainier e Spier [5],
quale che sia la prudenza che s’impone davanti a suddivisioni e
convenzioni inevitabilmente arbitrarie, non mancherebbe di essere
colpiti da un aspetto generale che evoca un taglio istologico in un
tessuto vivo. Tutta la regione compresa tra la Rocheuses e il
Pacifico, soprattutto nella parte mediana, offre l’immagine di tre
piccole cellule, diverse per forma e organizzazione, e la cui
distribuzione molto densa, tutta nel senso della lunghezza, fa
pensare a qualche strato profondo e germinativo, contrastante con le
cellule sempre più allentate, che notiamo percorrendo il taglio da
ovest a est e che rassomigliano maggiormente ad un tessuto
connettivo. Considerata in questa prospettiva, l’involuzione
costiera formata dal distretto di Georgia, quello di Juan de Fuca e
Puget Sound, intorno al quale si organizza la singolarità
dell’Oregon, appare come una sorta di nodo ombelicale delle culture
nordamericane, che marca il punto che le legò forse un tempo a
quello che, concretizzando una nozione astratta, potremmo definire il
loro cordone alimentare.
In una tale ipotesi, di
cui si eviterà di esagerare la portata, i miti su cui termina il
nostro inventario rappresentavano le forme sempre vive, ma anche le
più ricche e meglio preservate, di un sistema che, diffondendosi
verso est e sud, si sarebbe progressivamente decomposto, di cui non
abbiamo che ritrovato, fino al cuore dell’America del Sud, i
frammenti trasportati e sparpagliati durante i secoli dal flusso
delle migrazioni. Raccogliendo e mettendo a confronto questi
frammenti, noi avremo pazientemente ricostruito questo sistema nel
corso della nostra impresa, risalendo passo passo fino alla sorgente
dove, in uno stato ancora relativamente intatto, noi l’avremo
infine ritrovato.
Potremmo d’altra parte
interpretare le cose in un altro modo. Invece di vedere nella
singolarità dell’Oregon il punto dello spazio-tempo dove tutti i
fili di un sistema mitico primordiale, altrimenti sfilacciato, si
tenevano ancora insieme per effetto di una sopravvivenza, potremmo
considerare che dei racconti, distinti in origine, vengono a fondersi
e unirsi, come altrettanti elementi di un sistema possibile che
un’operazione di sintesi ha fatto passare all’atto. Virtuali
dappertutto, miti ridotti a stati del sistema, solo in un’epoca e
in un luogo sarebbero giunti ad articolarsi e organizzarsi per
generare qui un mito vivente.
Ma si vede anche che, dal
punto di vista dell’analisi, le due ipotesi si equivalgono perché,
partendo dall’una o dall’altra e mediante una inversione generale
di tutti i segni, le nostre operazioni si sarebbero svolte nello
stesso modo. Dal fatto che il sistema globale che ci siamo impegnati
a restituire è chiuso, ciò si configura come un esplorare dal
centro verso la periferia, o da una superficie verso l’interno: in
ogni modo, la sua curvatura intrinseca garantisce che sarà percorso
nella sua totalità. In una situazione di questo tipo, non sapremmo
precisare se si discenda o risalga il corso del tempo.
Senza dubbio analisi
locali permettono di stabilire tra certe trasformazioni mitiche dei
rapporti di anteriorità; lo abbiamo più volte mostrato [6]. Ma
quando ci si innalza ad un livello sufficientemente generale per
contemplare il sistema dall’esterno e non più dall’interno, la
pertinenza delle considerazioni storiche si annulla, nello stesso
tempo in cui si aboliscono i criteri che permettono di distinguere
gli stati del sistema che potremmo dire primi o ultimi.
La pensée sauvage, 1962 |
In questo caso, la
nostra ricerca non sarebbe stata solo quella del tempo perduto.
Perché quest’ordine di tempo che lo studio dei miti svela non è
altro, in fin dei conti, che l’ordine sognato da sempre dai miti
stessi: tempo più che ritrovato, soppresso; come lo proverebbe chi,
nato nel XX secolo, sarebbe penetrato dal sentimento, crescente con
l’età, d’aver avuto, giovane, la fortuna di vivere nel XIX
secolo vicino ai maggiori che vi parteciparono–- ma di non averlo
saputo - come essi stessi, con la mediazione dei vicini che gli
erano appartenuti, vivevano ancora nel XVIII secolo, ma non lo
sapevano nemmeno; poiché abbiamo unito insieme le nostre forze per
saldare le maglie della catena, ogni età si consacra a conservare in
vita ciò che è stato per coloro che verranno, il tempo è stato
verosimilmente abolito. E se tutti noi uomini l’avessimo saputo fin
dalle nostre origini, avremmo potuto congiurare contro il tempo, di
cui l’amore per i libri e i musei, il gusto per l’antiquariato e
le anticaglie testimoniano, in un modo talvolta derisorio, che nel
cuore stesso della civiltà contemporanea persiste un tentativo,
senza dubbio disperato e ineluttabilmente vano, di fermare il tempo e
invertirne il corso.
L’interesse che noi
crediamo di rivolgere al passato non è dunque che interesse per il
presente; legandolo saldamente al passato, crediamo di rendere il
presente più duraturo, fissarlo per impedirgli di fuggire e divenire
esso stesso passato. Come se, messo a contatto con il presente, il
passato, per un’osmosi miracolosa, finisse per diventare esso
stesso presente e, di colpo, il presente fosse premunito contro la
propria sorte, quella di divenire passato. E, senza dubbio, è qui
che i miti pretendono di fare ciò di cui parlano, ma è stupefacente
che lo facciano veramente sulla base di ciò che essi sono.
Spinta fino al suo
estremo, l’analisi dei miti attinge ad un livello in cui la storia
si annulla. Come quegli Indiani Dakota del Canada che rimaneggiano la
versione tradizionale di un mito tribale per neutralizzare la
contraddizione, da loro vissuta nel corso di una recente migrazione
storicamente accertata, tra le ideologie dei Sioux e degli Algonkin,
tutti i popoli delle due Americhe sembrano non aver concepito i loro
miti che per accordarsi con la storia e ristabilire, sul piano del
sistema, uno stato d’equilibrio in seno al quale vengono ad
ammortizzarsi le scosse più reali provocate dagli eventi.
Altrimenti, come comprendere che questi elementi del sistema, da noi
indicati come operatori binari – gallinacei, pesci piatti, farfalle
e altri insetti, sciuridi ecc.- conservano la loro funzione semantica
da un capo all’altro delle due Americhe, senza dover mai tener
conto, per spiegare questa resistenza, di innumerevoli mutamenti
demografici e culturali intervenuti durante i secoli?
Questa unità e questa
solidità del sistema costituirebbero un mistero, se si prendesse del
popolamento dell’America e dei rapporti storici e geografici tra i
diversi gruppi una visione più giusta di quella verso cui ci
porterebbe spontaneamente la nostra condizione di popolo detto
civilizzato.
In primo luogo, la
rapidità dei trasporti da un punto all’altro del globo, che noi
tendiamo a considerare come una conquista recente, rischia di far
sottostimare le distanze enormi che possono percorrere in qualche
decina d’anni o qualche secolo delle piccole squadre di cacciatori
o raccoglitori, per poco che essi vogliano procedere. Uno dei
risultati più stupefacenti della ricerca archeologica nel Nuovo
Mondo è la coincidenza approssimativa delle date più antiche
d’occupazione dei due emisferi. Dai due lati dell’equatore, le
stime sono risalite allo stesso ritmo e, nel momento in cui
scriviamo, esse si stabiliscono qui e là nei dintorni del XII
millennio prima della nostra era. È probabile che esse risalgano
ancora, ma tutto lascia pensare che ciò avverrà di concerto. A
partire dal momento in cui gli uomini sono penetrati senza saperlo in
America, attraverso le terre emerse che formavano lo stretto di
Bering, essi si sono metodicamente impegnati a occupare tutta
l’estensione del Nuovo Mondo e qualche secolo è stato
probabilmente sufficiente a gruppi capaci di camminare per diverse
decine di chilometri al giorno, anche tenendo conto di arresti
prolungati per mesi o anni, per distribuirsi a distanze più o meno
considerevoli gli uni dagli altri, dall’Alaska alla Terra del
Fuoco. È quello che si potrebbe chiamare un primo stanziamento di
immigrati che ha riguardato l’intera estensione del continente, e
in un tempo relativamente breve.
Ma non prestiamoci
all’idea assurda che con questo primo insediamento le cose si siano
fermate. Anche prendendo in esame due soli periodi del Pleistocene
superiore, i movimenti glaciali hanno lasciato aperto il passaggio
tra Vecchio e Nuovo Mondo, prima intorno al venticinquesimo
millennio, poi tra il tredicesimo e il decimo circa, queste
“finestre” furono sufficientemente ampie da permettere più
ondate migratorie successive, scaglionate nei secoli o lungo decine
di secoli. Ciascuna ha potuto sia approfittare di territori lasciati
deserti, sia distruggere o allontanare i precedenti occupanti. Noi
abbiamo anche ammesso [7] che, durante questa lunga storia, non sono
da escludere i riflussi delle popolazioni, poiché non c’è ragione
per cui esse si siano sempre dirette nella stessa direzione.
Nel momento in cui la
scoperta e la colonizzazione delle due Americhe andavano, in qualche
modo, a fulminare e poi annientare il divenire storico del
continente, tali movimenti di popolazione si producevano ancora e,
durante i primi secoli, l’arrivo dei Bianchi li ha, secondo i casi,
prevenuti, dominati, fatti precipitare. In America del Sud, in
particolare tra i Tupi, questi movimenti sono proseguiti a
intermittenza fino al XX secolo e osservatori qualificati ne furono
testimoni. Riconosciamo tutto questo. Non è meno vero, in virtù
delle nostre osservazioni precedenti, che osservate in un istante
qualsiasi della loro storia, le due Americhe, benché vuote per 9/10
(ad eccezione dell’America centrale, il Messico, e la zona andina)
hanno costituito un mondo pieno. Senza dubbio, non nel senso che una
demografia divenuta soffocante conferisce a questo termine, ma
tenendo conto che gruppi umani molto piccoli, ai quali una tecnologia
rudimentale impone di sfruttare enormi spazi per la caccia e la
raccolta e per i bisogni di un’agricoltura itinerante, possono
effettivamente occuparli percorrendoli senza posa, anche se questa
occupazione assomiglia più al modo in cui una quantità minima di
gas si dilata e disperde le sue molecole nell’intero volume di un
pallone, che all’ammassarsi di individui gli uni sugli altri nei
complessi immobiliari. Malgrado la loro magra popolazione, i gruppi
detti primitivi sanno esercitare attivamente la loro influenza su
tutta l’estensione di un territorio, e fino ai limiti estremi dove
l’equilibrio delle forze fa prevalere quella di altri gruppi. Ne
risulta che invece di concepire il Nuovo Mondo dei tempi
precolombiani come uno spazio praticamente vuoto in seno al quale, a
centinaia di chilometri gli uni dagli altri, si sparpagliavano
piccoli nuclei umani isolati, converrebbe piuttosto di rappresentarlo
come un aggregato compatto di grosse cellule poco dense, ma popolata
ciascuna in modo diffuso in tutto il suo volume, e le cui pareti
combacianti acquisiscono da ciò una relativa rigidità.
Lévi-Strauss durante la sua spedizione in Brasile |
Guardando le cose da
questa angolazione, diviene concepibile che ogni creazione originale
in un certo luogo
si ripercuote per contatto diretto negli altri
luoghi, e che una dislocazione sopraggiunta in un punto del sistema
provoca, poco a poco, la sua completa riorganizzazione. La fisica dei
metalli aiuta a comprendere come un gioco molto debole tra le
molecole di un corpo rigido basta perché si modifichi l’assetto
generale, senza che l’aspetto e le proprietà esterne del corpo
stesso cambino, quando una tensione che supera una certa soglia si
esercita in un punto determinato. Durante questo tempo, è possibile
nondimeno che questo corpo sia coinvolto dall’esterno in ogni sorta
di processi chimici o meccanici che modificano la sua forma, la sua
consistenza, il suo colore, le sue proprietà e gli usi ai quali si
presta, ma i due tipi di fenomeni non sono dello stesso ordine di
grandezza e non si svolgono sullo stesso piano.
È ora, per l’etnologia,
di liberarsi dell’illusione, creata dai funzionalisti, che prendono
i limiti pratici dove li rinchiude il genere di studi che essi
preconizzano per delle proprietà assolute degli oggetti a cui si
applicano. Non è una ragione perché un etnologo si rinchiuda per
uno o due anni in una piccola unità sociale, una compagnia o un
villaggio, e si sforzi di afferrarla nella sua totalità, per credere
che ad altri livelli che quelli a cui la necessità o l’opportunità
lo pongono, questa unità non si scioglie a gradi diversi negli
insiemi che restano spesso insospettati. Ad ogni modo, due livelli
discreti d’attività devono essere distinti nella vita dei popoli
senza scrittura. Da una parte, quello che chiameremo il campo delle
interazioni forti e che sono quelle alle quali, per questa ragione,
si è soprattutto prestata attenzione: esse consistono in migrazioni,
epidemie, le rivoluzioni e le guerre e si fanno sentire a
intermittenza, sotto forma di scosse profonde i cui effetti sono ampi
e durevoli. Ma accanto ad esse, è stato troppo trascurato il campo
delle interazioni deboli che si producono ad una frequenza molto più
rapida e con una periodicità molto ravvicinata, sotto forma di
incontri amichevoli o ostili, di visite e matrimoni. Sono queste che
mantengono il campo in uno stato di agitazione permanente. Questo
fremito delle superficie sociali fa sì che ad ogni istante delle
vibrazioni locali di debole intensità e dotate di bassa energia si
ripercuotano poco a poco fino alle estremità del campo,
indipendentemente da cambiamenti demografici, politici o economici
che sopraggiungono meno spesso, agiscono più lentamente e a un
livello più profondo.
Non è dunque
contraddittorio riconoscere che ogni popolazione americana ha vissuto
per proprio conto una storia molto complessa, ma che ha cercato di
neutralizzare questi avatar, rimaneggiando i suoi miti in misura
compatibile con le costrizioni delle forme tradizionali a cui devono
sempre adattarsi. Una storia già attenuata da questo lavoro interno
reagisce all’esterno su produzioni similari, si operano
aggiustamenti o si generano nuove opposizioni, trasferendo su altri
piani il bilancio perpetuo di similarità e contrasti. In occasione
di incontri intertribali, di matrimoni, di transazioni commerciali o
di catture guerriere tutte queste rettifiche scattano a catena e si
propagano controcorrente, molto più rapidamente che i grandi eventi
che sigillano il destino dei popoli. Appena scosso in un punto, il
sistema cerca il suo equilibrio reagendo nella sua totalità, e lo
ritrova grazie ad una mitologia che può essere causalmente legata
alla storia in ciascuna sua parte ma che, presa nel suo complesso,
resiste al suo corso, e riaggiusta costantemente la propria griglia
per cui essa offre la minor resistenza al flusso degli eventi che -
l’esperienza lo prova - è raramente abbastanza forte per sfondarla
e riportarla nel suo flusso.
NOTE
* Articolo pubblicato su Annales. Histoire, Sciences Sociales, 26e Année, No. 3/4, Histoire et Structure (May - Aug., 1971), pp. 533-540.
Testo integralmente reperibile presso il sito http://www.jstor.org/discover/10.2307/27566741?sid=21105421541301&uid=2&uid=4&uid=3738296&uid=2134&uid=70
1. I. R. BUCLER e H. A.
SELBY, A formal study of Myth, center of Intellectual studies in
Folklore and Oral History, Monograph Series 1, Austin, Texas, 1968
2. C. LÉVI-STRAUSS, Du
miel au cendres, Paris, 1967, pp. 302-307.
3. C. LÉVI-STRAUSS,
L'origine des manières de table, Paris, 1968, pp. 92-106;
Comment meurent les mythes, in Sciences et consciences de la
société. Mélanges en l'honneur de Raymond Aron, Paris, 1970.
4. C. LÉVI-STRAUSS, Le
sexe des astres, in Mélanges offerts à Roman Jakobson pour sa
soixante-dixième année, La Haye, 1967.
5. In H. E. DRIVER e W.
C. MASSEY, Comparative studies of North American Indians,
Transactions of the american philosophical society, NS vol 47, part
2, Philadelphia, 1957.
6. C. LÉVI-STRAUSS, Le
cru et le cuit, pp 229, 313-317; Du miel aux cendres, pp.
295-307; L'origine des manières de table, pp. 210, 216-223, 321.
7. L'origine...p.
56.
Traduzione di Maria Gaia Crivella