Holy Motors –
motori sacri – probabilmente già dal titolo denuncia una doppia
ascendenza, una natura anfibia, una derivazione ibrida: l'evocazione
di un articolatissimo congegno vagamente metafisico che, posizionato
dietro le quinte della realtà, fa funzionare quest'ultima come un
precisissimo dispositivo ad orologeria, ove il tempo sembra essere la
dilatata pausa verticale che ciclicamente torna al proprio punto zero
per ridisporre i fattori in gioco secondo nuove modalità di sviluppo
dagli esiti sempre imprevedibili [1], e dove lo spazio si è
aggregato nelle anodine sembianze di una Parigi sulfurea e
post-cubista, simile ad una figura topologicamente assurda,
percorribile dunque secondo tragitti impropri alle geometrie del
mondo fisico a noi familiare.
Va da subito precisato
che l'assunto da cui Carax muove in questo suo ultimo film non
risulta mai chiarissimo; tuttavia di ciò non gli si può fare una
colpa: egli procede sulla spinta di una poderosa ispirazione
immaginifica – a tratti visionaria – affiancando l'uno all'altro
episodi di brutale quotidianità, i quali però d'improvviso
s'infiammano di fronte a noi rivelando puntualmente un doppio fondo
di rarefatta finzionalità intrisa di livida sottigliezza meditativa.
Anche qui Carax, così
come negli altri suoi films, procede con uno smembramento chirurgico
del dato reale, strutturando cioè una serrata consecuzione di
piccoli nuclei narrativi tutti perfettamente conclusi in se stessi e
inanellati lungo il percorso che la Limousine di Céline-Oscar
traccia per le vie di Parigi. In tal modo almeno due risultati
strettamente connessi tra loro vengono raggiunti: da una parte il
film è sottoposto a una minuta disarticolazione attraverso una
libera giustapposizione di cellule narrative perfettamente
determinate nel loro sviluppo e dunque rivolte a prospettare uno
spaccato sempre pulsante del reale; dall'altra parte Carax tesse una
sotterranea linea metanarrativa [2] che, oltre a saldare le suddette
cellule, permette anche di riflettere su di esse e su ciò che accade
nel momento in cui queste si sono appena concluse o stanno per
riaprirsi su nuovi ed inediti scenari, evocando così una procedura
di racconto molto affine a quella già sperimentata nel '79 da
Calvino con il romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore [3].
La vicenda pertanto si
snoda fin dalle prima battute sdoppiandosi in una netta complanarità
di due flussi narrativi, i quali tuttavia non scorrono secondo un
disegno parallelo, ma piuttosto si raccordano l'uno all'altro tramite
un fragilissimo gioco di incastri, intrecciandosi come in una
dissonante fuga a due voci in cui il momento di contatto e
sovrapposizione della doppia linea di sviluppo è sempre rimandato
verso un ipotetico culmine, dove principio e fine verrebbero a
coincidere, forse sancendo l'arresto definitivo del motore sacro il
cui duplice tempo regge e scandisce l'intero svolgersi del film.
All'interno di questa
ritmica binaria, lacerti effimeri d'esistenze flebilmente abbandonate
sui margini affilati della memoria affiorano attraverso il
protagonista, il quale, con sonnambolica lucidità, trapassa da una
vita all'altra, accumulando sulla dura spigolosità del proprio corpo
un detritico mosaico di vicende sagomate unicamente
sull'interpretazione di un protagonista che (si) scopre sempre essere
l'allucinata controfigura d'un personaggio altrimenti assente, invaso
ogni volta da una luce lancinante, la quale finisce col bruciare ciò
che illumina: il dramma d'identità fatiscenti e scomposte, in grado
però di assumere una relativa coerenza interna solo mimando come da
copione – i dossiers che Oscar svogliatamente scorre nella
Limousine – un vissuto estraneo ma, proprio per questo, tanto
frammentario quanto momentaneamente compiuto.
Holy Motors esibisce
così una struttura diastemica [4], intessuta da una reiterata
scansione di discontinuità, che però non scompongono affatto in
modo catastrofico l'assetto del film, ma anzi lo rendono alquanto
coeso conferendogli una sorta di linearità superiore, intensiva, in
quanto risultante da una pragmatica diegetica trasversale – cioè,
come detto, deputata a connette narrazione e meta-narrazione in un
inesausto gioco di rispecchiamenti slittanti l'uno nelle zone di
interruzione dell'altro – la quale fa del deragliamento la traccia
certa in base a cui raccogliere in unità il continuo déferlement
della trama. Carax, quasi risalendo a contropelo la storia del
cinema, propone ciò che potremmo chiamare uno smontaggio di
attrazioni: i vari nuclei narrativi orbitano tutti attorno alla
figura – ora evanescente ora ben marcata – di Oscar,
disarticolandone il vissuto, trasformando ogni suo dato esistenziale
in una postulazione impersonale e allucinatoria. Ma nonostante questa
vasta topografia ellittica che regge tutto il racconto, quest'ultimo
non può non compattarsi, riaggregarsi freddamente e ferocemente
attorno ad una zona d'ombra densamente infestata da tutto ciò che
Oscar ha cercato fino a quel momento di eludere e schivare.
Più che emblematica è
allora l'inquadratura in cui egli percorre con Eva/Jean gli ambienti
spogli e deserti di un grande magazzino in disuso, incontrando sul
suo cammino mani, busti, arti inferiori, teste di manichini in pezzi
abbandonati alla rinfusa sul pavimento grigio di polvere. La scena è
ripresa dall'alto, a voler confondere i due personaggi tra quei corpi
fittizi a brandelli, a volerli quasi schiacciare su quel pavimento
vuoto, assurto dunque a metafora sia di quel disumano spazio d'esilio
che è la Limousine di Céline, sia di quel cimiteriale inventario di
frammenti, la cui molesta refrattarietà ad essere riassemblati in un
intero riflette il nauseato ostinarsi di Oscar a non voler
riassorbire in sé le sparute ed affilatissime schegge di una vita –
quella con Jean/Eva, appunto – che egli sa tuttavia essergli un
tempo appartenuta.
E, forse proprio per
questo, le immagini sono qui decisamente colpite da uno strano
bifrontismo [5]: da una parte esse narrano le vicende incarnate da
Oscar – sempre più sbilanciate verso il momento estremo della
morte – e dall'altra divengono doppi simulacrali di una biografia
bianca, astratta e spersonalizzata, semplicemente potenziale e quindi
del tutto inattuata, simile all'orizzonte vuoto di una narrazione
andata definitivamente in stallo. In seno a tale duplice trazione
incrociata di massima e polimorfa propulsione diegetica e assoluta
stasi narrativa, il film sviluppa la propria grammatica profonda, una
grammatica in cui l'incardinarsi orizzontale degli eventi
simultaneamente contesta e promuove la linearità di una struttura
aperta ove scorgere con sempre maggior precisione la possibilità di
annodare i vari episodi almeno secondo altre due matrici alternative
al semplice affiancamento: in modo circolare, ovvero seguendo un
tempo curvo infinitamente fatto di ritorni e ripetizioni – possiamo
infatti supporre che ogni Oscar impersoni la vecchia questuante
deforme, il padre della bambina, il killer ecc – ma anche in modo
trasversale, cioè secondo un tempo intensamente e capillarmente
frantumato, fatto di singole vicende che non si giustappongono, ma si
richiamano le une con le altre, tramite nessi di analogie riposte,
come relitti di una catastrofe di ricordi appartenuti a molti
soggetti diversi, ma ora non riguardanti più nessuno [6]. In tal
senso i “copioni esistenziali” di oscar valgono come
archivi/obitori di vissuti definitivamente dismessi.
Usando una metafora
potremmo dire che quello messo in campo da Carax è uno strano e
ingannevole gioco di scatole cinesi: esso non si attua per inclusione
progressiva delle une nelle altre in un unico spazio interno e comune
ad esse, ma piuttosto procede per esclusioni reciproche e rifrazioni
a distanza degli episodi, che si dispongono in gravitazione, privi
però di un campo unitario di distribuzione. E tuttavia, pur
nell'assenza di questo piano comune, sono proprio interruzioni
distanziamenti e fratture a diventare i principi d'ordine e
interconnessione che saldano la/e storia/e secondo un geometrico ma
flessibile intrico, le cui linee di sviluppo incastonano i singoli
récits lungo quella soglia circolare che rappresenta il perimetro al
di qua del quale la vita di Oscar viene – o dovrebbe venire –
salvaguardata da ogni compromissione emotiva, e al di là del quale
le varie vicende si dipanano quali pure proiezioni illusorie su di
uno schermo vuoto.
Tornando pertanto a
quanto si diceva poco sopra, le immagini risultano bifronti perché
il doppio versante secondo cui si snoda il film obbedisce ad un
principio di autoimplicazione che costringe i due lati ad incrociarsi
proprio attraverso quello schermo vuoto – il vissuto di Oscar –
nel cui angusto spazio le immagini proliferano come le volute di un
labirinto di fumo [7].
Tuttavia lentamente tale
delicata dialettica è colpita da scompensi, effrazioni, interferenze
che sovvertono il labile equilibrio preposto in apertura a far
scivolare i due piani l'uno sull'altro, come due nastri che, seppur
lasciati scorrere frontalmente l'uno all'altro secondo direzioni
simmetriche e inverse, improvvisamente trovassero un sorprendente
addentellato, il quale perviene a bloccare la spinta progressiva e
costante di entrambi. La grandezza di Carax infatti sta proprio nella
sua magistrale e spietata bravura a scombinare sempre senza preavviso
quelle stesse regole che egli stesso enuncia all'inizio della
pellicola, facendo in modo che proprio là dove ci aspetteremmo un
semplice succedersi di vicende scollegate e discontinue si delinei
invece con sempre maggior unitarietà una compagine narrativa
particolarmente densa e sfaccettata, nella quale paradossalmente
viene a riassorbirsi anche quel plesso da noi più sopra definito
come metanarrativo.
Emblematica in tal senso
è allora la lunga sequenza che occupa buona parte della seconda metà
del film,
sequenza in cui Oscar “fugge” senza preavviso e
apparentemente senza motivo dall'auto ferma per un piccolo
tamponamento – i Motori Sacri, dobbiamo supporre, operano anche par
hasard – e, avvicinatosi ad un'altra Limousine, scorge il volto di
Eva/Jean. È in questo dolorosissimo frangente, contrassegnato da un
riconoscimento inopinato e sconvolgente – riconoscimento reciproco,
dal momento che anche Eva/Jean ritrova nel volto di Oscar i tratti di
un viso già incontrato in precedenza –, che il doppio registro del
film deraglia, avvitandosi intorno ad un unico perno instabile [8].
Le due matrici qui si elidono a vicenda in forza di una sospensione
che schiude nella trama un trasparente trauma, nel cui intervallo per
un attimo Oscar cessa di impersonare le vite degli altri,
affacciandosi d'improvviso sul paesaggio lunare del proprio desolato
vissuto.
Per un ardito effetto di
rimandi speculari lo stesso capita a Eva/Jean, la quale tuttavia sarà
costretta a far coincidere tragicamente l'addio da Henry con l'addio
– vero o presunto? – dato a Oscar e culminante nel suicidio –
anch'esso vero o presunto? – dinanzi al quale egli, forse per la
prima volta in tutto il film, è assalito da un moto genuino e
spontaneo di terrore ed angoscia che lo spinge a “fuggire” di
nuovo nella Limousine, quasi fosse un grembo protettivo e consolante.
La morte dunque, in
questo istrionico sedimentarsi di vite parziali e disperse, è forse
l'unico dato davvero reale, il solo momento in cui Oscar riesce ad
aderire a se stesso ritrovando la propria deforme identità avvertita
però come un luogo d'aliene spettralità risorgenti sotto forma di
rotte iridescenze lungo un tempo divenuto deriva nel divenire,
illogica regione d'un'esistenza bruta e nuda, sottratta cioè allo
schermo estraniante del copione.
La morte, ha scritto una
volta Ungaretti, si sconta vivendo. In primis quella degli altri,
sembra chiosare Carax.
NOTE
1. Cfr M.
Butor, Répertoire I,
ed de Minuit, Paris, 1960, pp. 94-109.
2. Cfr J.
Ricardou, Problèmes du nouveau roman,
ed du Seuil, Paris, 1967. Nello specifico i tre saggi conclusivi
della prima sezione Les allées de l'écriture,
Plume et caméra, Page,
film, récit, nonché l'ultimo scritto della
quarta parte L'histoire dans l'histoire.
3. In
particolare qui si fa riferimento alla lettura di Segre in C. Segre,
Teatro e romanzo,
Einaudi, Torino, 1984, pp. 134-168.
4.
Palesiamo qui il nostro debito nei confronti del saggio di R.
Barthes, Littérature et discontinu
(cfr Oeuvres Complètes II,
Gallimard, Paris, 2005, pp. 430-441) almeno per quanto riguarda le
analisi esposte in esso in apertura. Per quanto riguarda invece il
prosieguo del nostro testo, ci discostiamo in toto dalle posizioni a
cui perviene Barthes a conclusione del suddetto scritto.
5. Cfr R.
Bellour, Fra le immagini,
Mondandori, Milano, 2007, con specifico riferimento a quanto l'autore
dice a pagina 226 su scorrimento, stratificazione e spazializzazione
delle immagini in termini di dispositivo.
6. Cfr C.
Ollier, Souvernir, écran,
Cahier du cinéma/ Gallimard, Paris, 1981. Con riferimento al saggio
dedicato al Muriel di
Alain Resnais; in esso l'autore sottolinea come punti di risonanza,
zone di attrazione o divisione, ramificazioni e associazioni oblique
disegnino in filigrana l'intreccio attraverso un suo variabile e
continuo ampliarsi o restringersi.
7. Cfr P.
Bonitzer, Le champ aveugle,
Petite bibliothèque des Cahiers du cinéma, 1999. In particolare qui
è stato tenuto presente il saggio intitolato Bobines
ou: le labyrinthe et la question du visage,
pp. 53-64.
8. Cfr J.
Ricardou, Problèmes du nouveau...
pp. 171 sgg.